domenica 20 dicembre 2009

U cunduttu

E’ un vecchio palazzo scrostato di tre piani. Sulla sinistra vediamo le rampe delle scale in muratura che portano esternamente sino al secondo e lasciano supporre che si acceda al terzo piano dall’interno delle abitazioni. Sulle scale e nella via si sono riversate circa trenta persone a cui hanno chiesto di guardare l’uccellino stando ferme senza respirare. I bambini davanti sembra che lo aspettino davvero l’uccellino e che sperino, chi in un canarino, chi in uno scricciolo e chi in un piccolo storno autunnale. Riconosco i posti della cartolina postale ma non le persone. Le finestre, semichiuse o con le gelosie appena sollevate, sono le stesse che si possono ancora trovare nella città di Bastia. Sulla destra, al primo piano, si affaccia un comunissimo terrazzo delimitato da uno sgabuzzino e che una tettoia ripara dal sole o dalla pioggia.


Che cos’è questo tubo di argilla che si arrampica lungo la facciata? Si tratta in realtà di una serie di tubi, lunghi meno di un metro e di un diametro di circa venti centimetri, incastrati l’uno nell’altro. Potrete notare che la parte inferiore dell’intera struttura affonda un po’ in una traccia ed è stata assicurata al muro con il cemento mentre è stata tassellata dal primo piano in su. Seguiamolo questo tubo. Presto un ramo si avventura obliquamente a sinistra per fermarsi all’angolo di quella finestra del primo piano. Il troncone centrale prosegue la sua ascesa diramandosi ulteriormente a destra e a sinistra verso altre finestre. L’effetto ricorda in più irregolare quello della venatura di una semplice foglia. Nessuno mi chiede a che cosa servisse? Non fa nulla, ve lo dico lo stesso: si tratta del famoso “cunduttu”. Il cunduttu era il sistema fognario per eccellenza che funzionava a tutta forza sino a pochi decenni fa: il bastiaccio come viene chiamato tutt’oggi, faceva i suoi bisogni, tutti i suoi bisogni, in un secchio di metallo smaltato chiamato “u cadinu” che la donna andava a svuotare al calare della notte, sicura di non essere vista dalla vicina di casa. E’ vero tutte prima o poi lo andavano a svuotare il loro cadinu ma sarebbe stato estremamente imbarazzante farlo davanti ad altre persone. Apriva piano piano la finestra, dava uno sguardo a destra e a sinistra poi senza fare rumore toglieva il tappo di sughero o di legno del proprio cunduttu e vi versava discretamente quanto i cagoni a cui cucinava in continuazione avevano capitalizzato durante il giorno. Nella cartolina postale ci accorgiamo dalle lunghe ombre che è sera. Le belle signore sulle scale hanno già da ora due preoccupazioni. La prima è di cucinare.

Vent'anni

Fino alle undici e mezza di notte era stata una giornata come le altre, una domenica forse. Alle undici e mezza, infilando il doppione della chiave nella camera della casa dello studente nella quale ero “abusivo”, mi ricordai improvvisamente che era il quattro dicembre e che quel giorno era il mio compleanno, il mio ventesimo compleanno, quello che si festeggia con tutta la famiglia e tutti gli amici con champagne, torta e ancora champagne. La fata turchina, o lo zio Alfonso che non ho, avrebbe aperto la porta e in un fascio di luce azzurra mi avrebbe offerto su un cuscino di seta le chiavi di una spider nuova fiammante. Tutti avrebbero cantato “Tanti auguri a te e la torta a me”. Ma io ero uno studente universitario abusivo in una camera singola della casa dello studente di Cagliari e come uno scemo mi ricordai di avere venti anni alle undici e mezzo di notte. Il titolare della camera che veniva da Uras un paese del nostro campidano, disse: “ Mi dispiace, Lino… ma io ho solo questa patata bollita nel fornello…” Non pioveva quella notte, ma io aprendo chissà perché la finestra sentii il rumore della pioggia, nel mio cuore e sul davanzale. Sì, perché in una busta di plastica marciva un’intera forma di formaggio sardo. I vermi saltavano e sbattevano sulla busta e a un cuore romantico bastava perché fosse inverno…


Quel giorno non fu perciò privo di magia: prima della mezzanotte festeggiammo con una mezza patata bollita e un temporale di vermi sardi il più bello dei miei compleanni.

Johnny e Gilda

Le diede un ceffone, un ceffone talmente forte che in quel momento sembravano Johnny e Gilda nella famosa scena del film. “Dov’eri? Perché ci hai messo tanto tempo?” Lei che lo fissava con gli occhi dell’amore e lui che infieriva con le parole.


"Non sai quanto ti ho aspettata, non sai quante sigarette ho fumato e quanti caffé ho bevuto. Dov’eri quando cercavo i tuoi occhi nella folla, quando cucinavo dei minestroni che mi dovevano bastare per tre giorni e mi facevo gli orli da solo? E quando poggiavo la faccia sulla piastrella fredda del bagno per sognare un tuo bacio caldo e piangere? E la gente che rideva di me… - Non ce l’hai la moglie? Forse non hai trovato la donna giusta?… Non dirmi che ti stiri le camicie da solo! Odio gli uomini che stirano! - Ma vai a prendere per il culo tuo fratello finocchio, va! E tu, è da un’eternità che ti aspetto, amore mio. Sbarchi nella mia vita solo ora, ora che non ti aspettavo più e pensavo di vivere il resto dei miei giorni nella gelida e rassegnata solitudine, fingendo che fosse una mia scelta. Mi entri in casa così, senza chiedermi scusa per il ritardo, ora che ho quarant’anni e qualche acciacco. E i bambini, eh, non ci hai pensato ai bambini? Non ti sembra che sia giunto il momento di cominciare a farli questi bambini? Dai sbrigati, amore mio, altrimenti nascono già con la barbetta. Ti do un minuto. Ho aspettato quarant’anni, posso aspettare un minuto…"

sabato 12 dicembre 2009

C’era un tale

C’era un tale che, senza saltare o correre, faceva i passi più lunghi delle sue gambe. Semplicemente queste gli si staccavano dal corpo il quale fluttuava nell’aria. Alcuni avevano le mani bucate, altri erano senza cuore o senza fegato ma avevano gli occhi più grandi dello stomaco e mangiavano a quattro ganasce. Vedevo gente con una patata al posto del naso e un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Ho visto una donna con un occhio di pernice, che mi guardava, mica la donna, l’occhio di pernice. Ce n’era una, machete in mano, che lottava con la sua foresta amazzonica che cresceva in continuazione.
Vedendo tutto ciò, l’inferno che avevano il potere di creare le mie parole, decisi di smetterla, di non parlare più. Dissi: “D’ora in poi sarò muto come un pesce”. Non l’avessi mai detto…

venerdì 11 dicembre 2009

La mosca

Ho tre lauree, una in medicina, una in biologia, una in scienze naturali e sono ora una mosca. Avevo, prima, delle ambizioni, dei sogni, ma le mie fantasticherie morirono istantaneamente quando accettai una proposta di lavoro a due passi da casa.
E’ un piccolo laboratorio di analisi mediche nascosto in un triste anfratto cittadino, che in teoria, come recita la carta dei servizi, dovrebbe fare dei prelievi di sangue, studiare le intolleranze alimentari, fare ogni sorta di esame microbiologico, citologico, batteriologico, ed estendere le proprie attività alla medicina del lavoro. La sorte canaglia volle che si specializzasse in analisi di campioni biologici e cioè di orine e di feci, involontaria vocazione che fu all’origine della mia metamorfosi.
Quando misi piede per la prima volta nel laboratorio, avvertii un odore così forte, così acre che, scorgendo un pozzetto d’ispezione fognaria nel centro della sala d’attesa, messo lì a dispetto delle norme igieniche, pensai a qualche problema allo scarico che solo l’autospurgo poteva risolvere. Ben presto mi resi conto che la causa delle esalazioni mefitiche erano i campioni che vi ho detto i quali affluivano in enorme quantità creando, oltre al problema delle analisi, che inevitabilmente procedevano a rilento, quello dello stoccaggio e dello smaltimento. Ce n’erano dappertutto, su tutti i ripiani, per terra, sulle scrivanie, sotto, nei cassetti. I campioni provocavano questi inconvenienti logistici, tormentavano l’olfatto dei presenti e attiravano centinaia di mosche e mosconi. Ma non vi è nulla a cui non si possa abituare l’essere umano, specialmente quando è costretto a convivere con la causa dei propri mali. Già dopo alcuni giorni il mio naso non sentiva più i cattivi odori e, alla lunga, gli insetti volanti divennero dei compagni di viaggio oltre che dei commensali, quando il carico di lavoro mi costringeva a consumare i miei pasti in sede.
Questa promiscuità forzata, la mia specializzazione in entomologia, la mia curiosità naturale mi portarono ad approfondire i comportamenti delle mosche e credo di avere appreso da loro più di quanto un essere umano possa mai apprendere in una sola vita. Ammetto che la nostra convivenza fu inizialmente difficile, sofferta, specialmente in quei momenti di incomprensione reciproca tipica delle fasi di studio dei rispettivi linguaggi e delle rispettive identità. Ma una volta stabilito un minimo di comunicazione i nostri rapporti diventarono molto più collaborativi e, oserei dire, simbiotici.
L’avventura cominciò alla mia insaputa, in un momento imprecisato e per delle ragioni che ancora ignoro. Me ne resi conto quando mi erano già spuntate le ali, che ovviamente tenni nascoste sotto i vestiti. Quando anche la testa e il resto del corpo iniziarono la loro trasformazione, decisi di non togliermi più né cappello né mascherina né occhiali da sole né guanti e, per sottrarmi alla vista dei miei colleghi, di confinarmi nella mia porzione di laboratorio, in pratica uno sgabuzzino, in un esilio volontario che durò molto meno di quanto pensassi. Fui mosca in soli tre giorni e soli tre giorni mi rimangono da vivere.
Ma ho appreso ad accettare la morte, l’ineluttabile, orrenda morte, e a gioire pienamente della vita, con tutte le mie forze, per quel che mi dà, ogni giorno, in abbondanza. Come me altri, sette in tutto, che hanno subìto la mia stessa metamorfosi: siamo ormai in otto a fonderci in un rombare allegro, felice, in un vibrante, inebriante inno alla vita, e a sfregarci le zampette quando lo “chef” sorridente apre la porta e ci consegna la "Nutella".

domenica 6 dicembre 2009

Lirica di balalaika triste


Voglio vivere in valle dove
Bue con mucca felici
Cammello con cammella felici
Gorilla felice
Elefante con elefantessa felici
Tutte balene felici
E anche ippopotami felici
Tutti felici
Gallina felice
Porco felice
Pecora felice
Tutti felici
Anch’io felice

sabato 21 novembre 2009

La mia salvezza

Devo la mia salvezza al mio insegnante di matematica alle superiori quando ancora ero in prima. Era un uomo dall’aspetto tanto severo ma fondamentalmente giusto e, per questo, profondamente umano. Sai come sono i primi tempi, una volta dimenticati i timori iniziali: si comincia a prendere confidenza e, credendo di interpretare la disponibilità degli insegnanti a proprio favore, ci si allarga eccessivamente. Per farla breve, a un mese dall’inizio dell’anno scolastico, i più audaci avevano già tirato fuori le buste di patatine che come dei lupi famelici si mettevano a divorare in barba ai ripetuti richiami e alle minacce di note sul registro. Vedendoci mangiare senza freni, il professore, Musu si chiamava, ci chiese:

“Lo vogliamo fare un piccolo viaggio d’istruzione nell’istituto?”

La risposta fu un boato unanime. Un viaggio d’istruzione? Dove? Quando? Come? Sì, che ci vengo!

“Vi chiedo solo un piccolo favore”, disse Musu, “nel corridoio cercate di non fare troppo chiasso!”

La classe uscì, ordinatamente e in un silenzio religioso. La piccola processione percorse il lungo e unico corridoio della scuola per poi fermarsi davanti alla quinta A. Il professore bussò e, senza provare la minima pietà per i poveri innocenti che eravamo, aprì la porta proferendo queste terribili parole:

“Ecco che cosa diventerete!”

Lo spettacolo mi rimase a lungo conficcato in petto, come una pugnalata a tradimento. Gli strilli di maiali che assassinano ci raggelarono il sangue. Nell’aula era un fuggi fuggi generale di foche, di trichechi, di balene, di mammut, di esseri enormi che si vergognavano di quel che erano diventati. Un paio si era nascosto dietro l'armadio, uno stava dentro, altri tre o quattro avevano trovato rifugio sotto la cattedra, la maggior parte tentava, inutilmente, di sottrarsi alla nostra vista rintanandosi sotto i banchi mentre i più coraggiosi cercavano la fuga dalla finestra per fortuna al primo piano. Uno soltanto, una specie di ippopotamo seduto su due sedie, stava finendo un sacco di mangime che la mamma premurosa gli aveva fatto pervenire durante la ricreazione. Questo mi sembrava. Mi accorsi solo più tardi che in realtà si trattava di un insegnante, di educazione fisica per di più. Fummo pietrificati, ferrificati, acciaificati. Vi furono delle crisi di pianto, di panico, isterismi. Alcuni svennero. Chiamarono l'ambulanza, i pompieri, i bidelli, i genitori, lo psicologo, il preside, i carabinieri. Arrivarono tutti assieme, come si va allo stadio, e chi consolava, chi stringeva il proprio figlio tra le braccia, chi giurava che l’avrebbe immediatamente iscritto in una scuola seria, le acque cominciarono a chetarsi.

Lentamente la situazione fu sotto controllo. Ripreso il flusso regolare delle lezioni, più nessuno osò mangiare in classe né lo fece negli anni seguenti.

Oggi sono insegnante a mia volta e sembrano definitivamente andati i tempi di Musu: la maggior parte dei ragazzi sono obesi già dalla prima e quando camminano il pavimento scricchiola, le travi gemono, i calcinacci cadono sui banchi. Il soffitto della seconda C è crollato la settimana scorsa, quello della presidenza promette di farlo al più presto. Qualsiasi consiglio alimentare è diventato inutile. Ognuno dietro al proprio trogolo mastica in continuazione, come per una specie di diritto acquisto. Si mangia senza fame, per inerzia. Non c'è più niente da fare per loro, ormai sono perduti, gonfi come dei palloncini colorati i giorni di festa. L’unica cosa che possiamo fare è di lasciarli andare e guardarli nostalgicamente, leggeri più dell’aria, diventare dei puntini e poi sparire definitivamente nel cielo di un eterno autunno.

martedì 17 novembre 2009

Mamodo e i vampiri 4

Dopo che furono tornati a casa , Alessandro disse: tu non puoi vedermi, Io avevo promesso a te che non ti avrei fatta andare in pericolo, io ti odio, scusa ma addio. E se ne andò. Poi io ritorna a casa. Ma dopo una settimana successero cose strane, ma poi a casa nella posta c ‘ era un biglietti con scritto: ciao bella, sono dai vulturi , e non venire a prendermi ormai, dovrò muorire per te . Io andai dai vulturi e l’ho incontrato io o cercato di salvarlo, ma lui tra calci e pugni continuò, ma alla io per salvarlo io morii. Lui pianse un sacco dicendo: no Bella no non puoi andare via e tutta colpa mia. Ma dopo anche uccisi i vulturi io come dicevo morii.
Alessandro si uccise mordendosi e buttandosi da una montagna e mori per me. Perché io ero morta e ci rincontrammo in paradiso. Io e Alessandro ci chiedemmo: che fine fece yek?

Ferdinando

sabato 31 ottobre 2009

Help




Ce l’ha una pomata per le emorroidi che non lasci l’alone? Che non lasci più apparire i contorni di Cipro, Santorini, Zante, Gorgona, Capraia o dell’isola d’Elba? Che non faccia sognare di evasioni in isole lontane e favolose? Di tesori sepolti e continenti da scoprire? Che non ispiri alla gente idee di vacanze esotiche nelle isole Samoa, in Guadalupa,nel Gran Cayman o nell’’Isla Pinta? Un balsamo che non odori di piogge equatoriali, monsoni o aurore boreali? Che non dia voglia di Cina, di Giappone, di Eldorado o di antico Perù? Un unguento che non sia poesia, epica, leggenda, avventura, viaggio a Citera o ritorno a Itaca? Ce l’ha una pomata per le emorroidi che non lasci l’alone?

martedì 27 ottobre 2009

Mamodo e i vampiri 3.

Camminavamo io e ale, di sera li chiesi: oggi è il mio compleanno…, posso chiederti un favore, baciami!.
Lui mi diede un bacio. Poi mi portò a casa sua e aveva preparato la torta per il mio compleanno, tutta la famiglia callen era con me. Dopo mi ero tagliata con la carta e gines mi attaccò, ma per fortuna Alessandro mi difese. Poi mi disse nella foresta io non posso stare più con te, ti o promesso di proteggerti, invece ti o messo in pericolo!.
Poi tornai a casa piansi un sacco per Alessandro.
Il giorno dopo giulia mi disse: Alessandro e andato dai vulturi!
Io e la famiglia callen andammo da Alessandro. Dopo un po’ giulia mi disse: farà un gesto edlatante,se mostrerà il suo corpo alla luce del sole i vulturi lo uccideranno e con lui noi, tu sei un umana che sa troppe cose di noi e il nostro mondo, loro potrebbero ucciderci tutti!
Andammo e Alessandro stava mostrando il suo corpo alla luce del sole. Io li dissi correndi disperata: no alessandro non farlo!
Poi i vulturi dissero a Alessandro la ragazza viene con noni. Alessandro disse: andate al diavolo,
io li dissi ad alessandro: alesandro o paura!
Poi i vulturi si arrabbiarono e lo picchiarano massacrandolo Alessandro non riusciva più ad alzarsi. Poi un volturo mi stava andando da me per uccidermi ma un altro della famiglia callen mi difese, e venne massacrato pure lui .
Un volturo alla fine mi morse ma Alessandro mi difese dandoli un pugno in pancia, e cosi scappamo.
Ma appena arrivammo a casa lui disse : bella non è ancora finita, e troppo pericoloso per me e per te, ma ti chiedo perdono perche non sono stato capace di difenderti, ma pure se sei stata trasformata in mamodo io ti amerò sempre.
Io li dissi: anchio ti amerò sempre Alessandro.
E ci baciammo. Ma Alessandro disse: non è ancora finita isabella.
Io li dissi: lo so alassandro.
E dopo ci sbraciammo .

Ferdinando

giovedì 1 ottobre 2009

Mamodo e I vampiri 2

Combatto contro la morte
Un bel giorno avevo incontrato Alessandro e uscimmo per una passeggiata.
Mentre camminavamo lui mi diede un bacio sulla guancia e vedevo che era felice.
Mi disse: tu non conosci i vulturi , sono più forti di noi, ma tu non ti devi preoccupare.
Mi portò in braccio e correva velocissimo, io li chiesi mentre correva: dove mi vuoi portare?
Lui mi disse :in una montagna TI DEVO FAR VEDERE perché NON CI MOSTRIAMO ALLA LUCE DEL SOLE.
POI UNA PERSONA CI SPINSE, ERA QUESTA VOLTA UN MAMODO, MA NON C ‘ ERA SOLO LUI .
C’ ERANO QUATTRO MAMODO. ALESSANDRO MI DISSE: NON PREOCUPARTI CENE ANDREMO.
LUI COMBATTE CON TUTTA LA SUA FORZA E LI DISSE AL MAMODO : NON LA SFIORERAI NEANNCHE.
E LI DISSE: SE PENZI DI SCONFIGGERMI SEI UN INLUSO. E LO PICCHIO DA RENDERLO HO.POI MI ATTACARONO MA VENI UNA PERSONA STRANA E MI DISSE STAI TRANQUILLA NON MUORIRAI E PICHIO I MAMODO E PRESE ALESSANDRO. VENNERO DELLE CREATURE STRANE MA QUESTO RAGAZZO MI DISSE DOPO TI PORTERò VIA DA QUA . MI PORTò A CASA MA IO NON SAPEVO COME CONOSCEVA LA MIA CASSA.
QUANDO ALESSANDRO SI SVAGLIO DISSE :STAI LONTANO DA LEI GEK. E LUI DISSE: OK . E LI DIEDE UN PUGNO E DISSE: RITORNERO ALESSANDRO. E SENE ANDò . ALESSANDRO ERA ARRABBIATO MA IO LO FERMAI . LI DISSI NON DEVI PICCHIARLO ALESSANDRO MI A SALVATO LA VITA, SENZA DI LUI SAREI MORTA.
E SI FERMò, IO GLI CHIESI: CHI ERANO QUELLE CREATURE? LUI MI DISSE: ERANO DISSENNATORI SUCCHIANO L ‘ ANIMA, OGNI RICORDO Più FELICE. E MI DISSE: I VULTURI VERRANNO E MUORIREMO ISABELLA . IO LI CHIESI: COSA SONO I VULTURI, SONO MAMODO COME TE O VAMPIRI GIUSTO?
MI DISSE LUI: SI, E VERO SONO VAMPIRI MA IO TI RACCOMANDO NON RESISTERò ANCORA A LUNGO CON IL TUO SANGUE.
IO MI CHIESI: COSA SUCCEDERA? COME FINIRà? LUI MI DISSE DI SCATTO: MUORIRAI. IO DISSI:COSA.


FERDINANDO

mercoledì 30 settembre 2009

I mamodo e i vampiri 1 (la morte si raggiunge).

Un giorno nessuno avrebbe fatto tutto quello che ha subito una ragazza di 14 anni.
Un bel giorno una ragazza uscendo vide delle persone strane ma lei si chiese che ci faceva quel suo amico Alessandro? A casa quando entrai c’era Alessandro. Mi disse di sedermi.
Dopo mentre ero seduta mi spiego Mi spiego di una battaglia e che era un mamodo (lui non sapeva dei volturi ) ma non tenevo conto di giocare con la morte.
Mi disse:tu non sai niente io ti devo proteggere, isabella ti amo troppo,non so quanto dovrò resistere ancora,e se vuoi aiutarmi tieni conto che stai giocando con la morte. Cosi mi disse.
Un girno a casa mia mi sentivo strana ma poi quando andavo in cucina o trovato i miei genitori morti dissanguati. Sul collo avevo un segno strano era uno scheletro,ma era disegnato come se uno con un coltello affilato mi avesse falciato la pelle. Il segno era uguale a quello di Alessandro.
Io glielo feci vedere e mi disse che in futuro sarei stata come lui, della sua specie.
Ma un mese dopo, ero con Alessandro e all’improvviso venne una persona strana. Cinque minuti dopo ci mise a terra ma Alessandro non riuscì a difendermi perche c’ ara un vampiro, e i vampiri sono più forti dei mamodo mi stava per mordere ma invece Alessandro da terra con lividi, li diede un pugno in pancia e lo fece volare. Lui immediatamente si alzo e mi mise sopra le sue spalle e mi porto via.
Be io ritornai a casa ed’ eravamo preoccupati.
Io li chiesi: sono stati quelli della tua specie a ucciderli? Mi disse di si.
Quando se ne andò con lacrime io piansi poi Alessandro entro dalla finestra e mi disse : su dai non piangere ci sono io con te . io ti amo troppo. E ci baciammo cosi di sera ma io piangendo,e urlando disperata li dissi:
anch’io ti amo ma io morirò Alessandro, li diedi un bacio e sene andò. Che cosa succederà? Morirò? Mi chiesi a me stessa travolta dalle lacrime per i miei genitori.

Ferdinando

martedì 29 settembre 2009

Giuggiole



Il mio sogno ricorrente è una tavola imbandita di giuggiole. Lì, a destra, alcune ceste di giuggiole giganti, mature ma ancora croccanti. Di là, dei vassoi di giuggiole di media dimensione, quella dell'oliva per intenderci. Come dice un mio amico: vanno giù che è una bellezza! Un po' dappertutto, nei piatti, nelle ciotole, nei bicchieri, nelle bacinelle, nei sacchi di iuta, quelle piccole, che per esserlo, piccole, non sono meno buone. I noccioli vengono raccolti nelle buste, traboccano dalla spazzatura, ricoprono il pavimento di ogni stanza, si ammassano negli angoli, riempiono i vasi, le vasche, gli sgabuzzini, le verande.

Al mio fianco la compagna della mia vita. Troppo spesso guardiamo quelle nuvole minacciose.
"Quando non sarò più, fai che non manchino mai, fai che inondino gli orizzonti dei nostri figli, che questi possano mangiarne a sazietà, che scalino montagne di giuggiole piovute da ogni dove, che ne diventino i sacerdoti, i profeti, che sacerdoti e profeti diventino i loro figli, e i figli dei figli... Me lo devi giurare, ora..."
Lei tra le lacrime me ne fa solenne giuramento e io le giuro che finché avrò vita non le mancheranno mai, giuro che le giuggiole abbonderanno nella sua bocca come i versi in quella dei poeti. Assieme, più fiduciosi nell'avvenire, spalanchiamo porte e finestre e sorridenti contempliamo le nostre foreste di giuggioli deliziosi.

lunedì 14 settembre 2009

Questa e altre domande

Se l’Italia facesse parte dell’Inghilterra ti chiameresti ancora Mariuccia?
Qual è la puzza che ti piace di più?
Si può avere paura del proprio teschio?
E’ più veloce babbo Natale o il topolino dei denti?
A quale età comincia a crescere il monosopracciglio?
Sei mai stato costretto a farti il bidet con l’acqua minerale a causa di lavori lungo la rete idrica?
Se in inglese uomo si dice “man” e trapano “drill”, “mandril” significa uomo trapano?
Perché il cesso di quello del piano di sopra si trova sempre sulla cucina di quello del piano di sotto?
Perché se non sopporto un tale mi sta antipatica pure la sua macchina?
Perché un numero impressionante d’italiani pronuncia “bloblema”?
In un negozio ti sei mai spaventato vedendo muoversi uno che pensavi fosse un manichino?
Sei mai stato ipnotizzato da una gallina?
Perché per strada non posso neanche dire “siamo” che tutti si mettono a cantare “siamo i Watussi”?
Lo faresti il tuo viaggio di nozze in una butaniera?
Riusciresti a guardare una bella donna negli occhi senza metterti il dito nel naso?
Il fatto di vedere Babbo Natale me lo renderà meno speciale?
Se uso un calzino per scolare la pasta poi la devo condire lo stesso?
Le macchine che s’incrociano per strada si conoscono tra di loro?
Perché le barzellette che fanno ridere gli insegnanti fanno ridere solo gli insegnanti?
Sei mai sprofondato nel water perché qualcuno non aveva abbassato la tavoletta?
Quale sarà mai la più bella poesia scritta in una bagno pubblico?
Che numero devo fare per chiamare il 113?
A te risulta che Emiliano si chiamasse Zapata?
Sei stato felice quando hai saputo del lago Titicaca?
Che effetto fa quando l’insegnante sbatte fuori i più bravi della classe?
Ti sei mai innamorato di un cartone animato?
Ma come posso mettermi seriamente a dieta se ogni volta che piove escono le lumache?
Ti sei mai pulito gli occhiali con le mutande?
Qual è la differenza tra due farfalle uguali?
Gli spaghetti alle vongole si fanno con le vongole?
Trovi delle aringhe nel frigo: butti le aringhe o il frigo?
Perché le custodie auto collanti sono sempre più piccole dei contrassegni assicurativi?
Quante volte dici “ciao” prima di riagganciare il telefono?
Quando bevi alla bottiglia lasci i sommergibili?
Se i calci nel sedere facessero volare che uccello saresti?
Hai mai parlato di cose serie con la cerniera dei pantaloni aperta?
La tua casa ti vuole bene?
Dov’eri quando avevo bisogno di te?
La pugnalata alle spalle fa “tso” o “tsa”?
Hai mai dormito nella cuccia del cane col cane?

venerdì 11 settembre 2009

I vecchi

Tre volte la settimana, verso le tre del pomeriggio, il sottoscritto infila la canadese e si reca seduta stante sulla pista ciclabile che per un tratto di circa tre chilometri accompagna il viale Repubblica verso l’argine del Tirso. La strada e la pista sono separati da una lunga aiuola nella quale cresce senza ritegno l’erba più strana e si accumulano le cose più inguardabili. Sulla sinistra, invece, dietro il muretto basso, si estendono dei campi, che per quanto cerchi di ricordare, non ho mai visto a "poboribi", come dicono i contadini delle mie parti, e cioè a riposo. Al momento, si vedono spuntare dei fili verdi che promettono gialle spighe di grano per il prossimo luglio. Io, che faccio? Sono su una pista fatta apposta per correre, corro. Davanti a me, a circa trecento metri, scorgo una figura familiare. Si tratta della sagoma grigia di una coppia di anziani che a modo loro non raggiungeranno mai la tartaruga. Camminano ma non vanno avanti. Il loro orizzonte è sì l’argine ma farebbe prima Cristoforo Colombo ad arrivare in America a nuoto. Lei si appoggia a lui e lui si appoggia a lei formando, assieme, una toccante emme maiuscola leggermente china in avanti, come un giogo, come se trainassero i loro anni o cercassero qualcosa per terra. In effetti, qualcosa la cercano. Lo dimostra la busta di plastica che si sono portati appresso. Per ora è vuota, ma so che al tramonto, o a notte fonda, con il favore della corrente, saranno arrivati all’argine e appena dietro l’argine faranno strage di cicoria e finocchio selvatico.

giovedì 10 settembre 2009

Ritardatari

Sulla statale 135, a bordo della sua Fiat Tipo bianca, Marco Serra, impiegato nella filiale della Banca Intesa della vicina città, nonostante i buoni propositi e i ripetuti richiami del direttore, era come al solito in ritardo.

Nel frattempo, la moglie, la professoressa Gisella Muscas, stava raggiungendo la vicina scuola a piedi e, nonostante i buoni propositi e i ripetuti richiami della presidenza, era come al solito in ritardo.

Sulla statale 135, un’ Alpha Romeo rossa si avvicinava sempre più alla Tipo senza superarla. Semplicemente le stava incollata dietro a un mezzo metro fisso di distanza.

La professoressa Muscas, mentre camminava, sentì l’umido muso di un grosso bulldog minaccioso tra le sue chiappe. Non ci fu verso di farlo andare via neanche allungando il passo.

Il signor Serra e la moglie sono stati puntuali al lavoro: lui è arrivato alle 8.30 precise, lei pure.

Da quel giorno, il signor Serra e la signora Muscas si alzano dieci minuti prima.

domenica 6 settembre 2009

Pitzu, culu o costa?

C’era sempre a Natale quando si giocava a pitzu, culu o costa. Il gioco consisteva nel prendere una nocciolina, farla girare e indovinare in quale posizione si sarebbe fermata rispetto a un punto di riferimento qualsiasi: un’altra nocciolina, una noce o l’angolo del tavolo. Mio zio prendeva la nocciolina tra il medio e il pollice e con un colpo magistrale la faceva girare a tutta forza. C’erano tre posizioni possibili: pitzu, culu o costa e cioè la punta, il fondo o il lato. E quando aveva eseguito il suo colpo da maestro, chiedeva all’orda barbarica di fratelli e cuginetti “PITZU, CULU O COSTA? “ Invariabilmente e unanimemente la risposta era “CULU!” E allora, solo e esclusivamente per la nostra gioia, mollava una di quelle scoregge che facevano sbattere le porte. Ed erano risate da non più finire…
Ora sto qui, solo nel parco. I bambini sono ancora a scuola e mia moglie è andata al supermercato. Quanto pagherei per ritrovarmi una nocciolina in tasca!… Ma ho un pennarello e quasi quasi sul banco di legno ci scrivo una cosa che non ho potuto dirgli quando ancora era in vita. Occhiata a destra, occhiata a sinistra. Ma sì! la scrivo: TVB…
Sì, va bene, molto infantile, ma da lassù lui capirà.

lunedì 31 agosto 2009

Stelle

Eccolo lì, lo sceriffo... Ha appena visto l’uomo che ha svaligiato la banca e ucciso il suo migliore amico. Non esita un istante: sfodera la pistola e spara… Il malvivente non è stato centrato. Un colpo di speroni e prende la fuga. Lo sceriffo lancia il suo cavallo all’inseguimento di quella carogna lungo il Rio Grande ed è un susseguirsi di paesaggi fantastici che trovi soltanto nei grandi western. Ma anche il fuorilegge ha un’arma… Stai attento sceriffo, non farti colpire da quel essere spregevole… Ora vengono inquadrati in successione i garretti dei cavalli al galoppo. Quello dello sceriffo sembra più veloce, è più veloce. L’uomo di legge è finalmente arrivato all’altezza del bandito, si lancia e lo disarciona. Cadono in acqua, ma lì non c’è storia: due magnifici cazzotti e la giustizia trionfa ancora. Giuseppe non vuole perdere niente del film: mentre si accendono le luci del cinema e sfilano i titoli di coda è l’unico a rimanere ancora seduto nella sua comoda poltrona. In cuor suo ha deciso: da grande diventerà sceriffo. Ma dove cavolo è andato il fratello maggiore? Va bene, ha capito, deve uscire. Proprio prima di varcare la soglia da un ultimo sguardo allo schermo, poi torna alla buia realtà. Sono le sette e trenta di una domenica invernale all’uscita di un piccolo cinema di paese. La gente se n’è andata tutta e lui è rimasto solo ma sa che in questi casi non si deve muovere perché tanto il fratello torna. Improvvisamente, le luci del cinema si spengono. Davanti al cinema il campetto di calcio, che conosce come le sue tasche, è completamente immerso nella notte nonostante gli sforzi di una scarsa luna. Quasi, quasi… Ma sì! Si lancia al galoppo, il tempo di catturare il bandito e poi torna… Tagadà, tagadà, tagadà, tagadà… Svolta a sinistra. Tagadà, tagadà, tagadà, tagadà… Ancora a sinistra. Paf! Una stella gigante illumina il cielo a giorno. Trovato il fratello… Ora hanno un serio problema: come spiegare ai genitori il bel occhio nero che si sono appena fatto?

giovedì 27 agosto 2009

Il padre di Lenin

Il tetto dell’inferno crollò improvvisamente, quasi senza fare rumore. Nell’ombra dell’ombra un uomo gridava che voleva vivere ancora. Accorsero. E’ inutile, da lì non si passa e non si può fare saltare la roccia con l’esplosivo. Spacchiamola con la mazza e preghiamo Iddio di arrivare in tempo. Se lo salvavi era tuo fratello, se moriva era tuo fratello.
Ed erano tuoi fratelli tutti quelli che ti stavano intorno, la fronte lavata dal sudore, le guance dalle lacrime e la sera la bocca dal vino peggiore.
Ho riempito venti vagoncini di materiale e me ne paghi quindici. Il bambino che mi è nato ieri lo chiamerò Lenin. Giuro che lo chiamo Lenin perché così ci state uccidendo. All’alba, marceremo con tutti i miei fratelli verso la città. A centinaia sputeremo per terra guardando il sole in faccia.
“L’ho organizzato io quello sciopero, sai?”
Il vecchio scava nei suoi ricordi. Racconta una storia di sangue e di dolore, una storia di terra, di pietra, di polvere, una storia triste e dura, una storia bella, quasi d’amore. Una storia di miniere. Le parole che risalgono dalle profondità sono nere come il carbone, rosse come la rabbia, dolci e stanche come quando l’argano lo riportava alla luce del sole. Sono parole nostalgiche che inseguono dei volti e dei nomi nelle gallerie del passato, sempre più profonde, più strette e buie. E beve del pessimo vino per ricordare meglio, per mandare giù la polvere del tempo come fosse quella che respirava una volta. Il figlio, che poi ha rinunciato a chiamare Lenin, beve con lui e ascolta. Ha una penna in mano.
“Hai scritto, Lino?”
“Ho scritto, papà.”

lunedì 24 agosto 2009

Conversazione col bullecco

Sotto le lenzuola, il bimbo sussurrava alla sua mano, il bullecco, appena udibili dal bullecco stesso, delle misteriose parole in una lingua sconosciuta. Era una triste conversazione tra lui e la sua mano destra in un tetro e buio dormitorio all’ora della ronda e della preghiera che precede il sonno. “Mamma…”, “Non c’è la mamma!”, “Dov’è andata?”, “Non lo so. La bambina ti ha dato la mano oggi?”, “Oggi no, ieri… Non avevamo voglia di giocare e siamo rimasti a guardare”, “Attento, la ronda!”
I sorveglianti circolavano a passi felpati tra i letti cercando di sorprendere chi facesse finta di dormire. Avvertì dei passi furtivi e forse un leggero spostamento d’aria proprio vicino al suo letto. Si erano appena fermati all’altezza della sua testa, immobile sul cuscino. Un fascio di luce filtrò attraverso la coperta e il lenzuolo perciò cercava di respirare regolarmente perché era soprattutto dal respiro che s’accorgevano se facevi finta o dormivi davvero. Passarono pochi interminabili secondi che sembrarono convincere la ronda. I passi si allontanarono alla ricerca di povere anime disperate che non riuscivano a darsi pace. Una la trovarono. Si sentirono gli schiaffi e dei pianti soffocati, poi di nuovo un silenzio di preghiere.
“Perché non c’è la mamma?”, “La mamma vuole che tu rimanga qui, poi un giorno verrà a prenderti. Stai tranquillo. Prometti di non piangere?”, “Va bene prometto…”, “Dimmi, poi che cosa avete fatto con la bambina?”, “Niente, siamo rimasti a guardare gli altri che giocavano mentre mi dava la mano. Poi sono arrivati i sorveglianti e l’hanno portata via. Lei piangeva perché non voleva lasciarmi. L’hanno picchiata… Loro sono cattivi, cattivi…”, “Attento, la ronda!”
Questa volta toccò a lui: “Alzati !” Il bimbo si mise in piedi fingendo un’espressione addormentata e sorpresa. Erano i due sorveglianti, uno gli puntava la luce di una torcia elettrica in pieno viso. Non ci furono altre parole. Soltanto schiaffi.

domenica 23 agosto 2009

Una storia velenosa


Voi, il potere della folla inferocita non lo conoscete e vi auguro di tutto cuore di non conoscerlo, come è recentemente capitato a me. La mia triste esperienza ha avuto luogo in un villaggio vacanze della Costa Smeralda dove mi reco ogni anno a ferragosto con la mia famiglia. Partecipo solitamente nella e intorno alla piscina principale – l’altra è la relax – alle varie attività proposte dallo staff d’animazione durante le cosiddette ferragostiadi o giochi di ferragosto. Inizialmente, ho una certa difficoltà a vincere le inibizioni accumulate durante un intero anno di lavoro nella civiltà ma, a poco a poco, riesco a lasciarmi andare per non dire abbandonarmi. Non è affatto semplice assistere, per esempio, a “miss maglietta bagnata” e cantare insieme al coro maschile “Oh le le, oh la la, faccela vedè, faccela tocca!” oppure essere stonati come una casseruola e dover esibirsi in un pietoso karaoke davanti a un pubblico ilare. Sono un tipo riservato e piuttosto pudico - lo avete capito che certe cose non sono da me - eppure, come per incanto, quando sono più che certo di indossare il mio caro costume da bagno lungo sino alle ginocchia e con effetto paracadute nei tufi, mi ritrovo, magia delle magie, in tanga. Sì, avete letto bene, in tanga completo di filo interdentale tra due guanciali. Ed eccomi pronto a prendere parte a “balena bianca” in piscina! Oltre ad essere involontariamente indecente mi capita di fare delle cose che mai e poi mai mi verrebbe in mente di fare nel mondo reale, come quando, improvvisamente, passa il trenino. L’ho sempre odiato, il trenino e quella canzone che fa Brigitte Bardot Bardot… Indovinate… Quest’anno il capotreno ero io… Ciao ciao con la manina!

Tanga, balena bianca, oh le le oh la la, trenino, faccia felice, da scemo … Il massimo della mortificazione, direte. Dovete sapere che non appena mi comprometto sbucano da chissà dove i microfoni e le telecamere di Rai 3 a farmi la tradizionale intervista e a proporre ai carissimi telespettatori le mie ormai famosissime chiappe. E non c’è modo di rifiutare: quelli ti stanno attaccati come le vespe! Finché non ti rovinano la reputazione davanti al paese intero non ti danno tregua. E’ così ogni anno, sistematicamente, come una condanna, una pena da scontare. E non chiedetemi perché.

Quest’anno è stato traumatico. Ringrazio solo Iddio che i miei erano andati a dormire e non hanno assistito alla mia umiliazione. Avete presente il vizio degli animatori – li possa rincorrere santo Pantaleo! – che a tradimento chiamano uno del pubblico? Ma sì, lei, non faccia il difficile! Un applauso per… Indovinate a chi è toccato? Sì, a me, anche in quell’occasione sicurissimo di essere finalmente riuscito a mettere il mio costume gigante, quello che visto sott’acqua mi fa sembrare una medusa… Ma sotto i proiettori ero in tanga, più impacciato che mai. Dovevo fare un’imitazione ma mi rivelai così goffo che dovetti rincominciare più volte perché il pubblico non capiva. Ero talmente imbambolato che probabilmente ero io a non avere capito che il gioco era un altro. Un imbecille ha cominciato a scandire: “Nudo! Nudo! Nudo!” E la folla in una sola voce: “Nudo! Nudo! Nudo!” E io: nudo. E tutte che me lo guardavano, e tutte che ululavano… e io, lì, in mezzo, ero un pomodoro. Ma alla fine, quando tutti gli occhi si erano rifatti una salute, quando anche i ciechi vedevano, alla fine venne l’applauso. Fu lungo, intenso, caloroso e, soprattutto, riconoscente.
E sbucarono dalla notte i microfoni e le telecamere di Rai 3. Grazie, grazie davvero… Mostriamolo pure al mondo intero… Ma il veleno in tutto questo? Tutto quello che so è che quando arrivo ne sono saturo, imbevuto come può esserlo un babà. Sempre. Quando vado via, invece, ne ho molto meno e ho qualche speranza di sopravvivenza in più.

giovedì 6 agosto 2009

Baciami

Gli occhi erano quelli e i capelli pure. Se vogliamo anche la forma del viso, la statura, il portamento, il modo di camminare, di gesticolare, di ridere erano quelli ma non era pienamente sicuro che la donna che ballava da sola nella pista fosse sua ex moglie. Il tempo era passato. Quanti anni? Sette? Dieci? Oh Dio! Sembrava più giovane: era lei ma in più giovane!
“Balla?”
“Perché no?”
“Scusi ma io l’ho già incontrata?”
“Certo che mi hai già incontrata brutto stronzo che non sei altro!”
Beh, di certo il suo linguaggio è rimasto inalterato. Gli ritornarono in mente tutte le gustose espressioni del suo repertorio, tutte al di sotto della cintura. Una in particolare che sembrava adorare. Era una sorta di profezia-minaccia: “Un giorno mi bacerai il culo!” Ci puoi contare! Intanto ti ho scaricata.
“Scusa se te lo chiedo ma come fai a sembrare più giovane di quando stavamo assieme?”
“Lifting, scemo! Ho fatto il lifting. Che fai mi baci?”
“Il collo amore, il collo… Raccontami del tuo lifting…”
“Cosa vuoi sapere?”
“Tutto… Il tuo collo mi fa impazzire… Questo neo che non ti conoscevo...”
“Il lifting, ti tirano la pelle di qua e di là per eliminare il doppio mento, le rughe, insomma per nascondere le schifezze… Lo fanno su tutto il corpo, mica solo in faccia come si crede. Io mi sono fatto fare un lifting in pancia per eliminare quelle brutte pieghe che sai, poi un altro nella schiena, poi un altro qui per rialzare un po’ le tette.”
“Ah! Scusa ma non temi che a forza di tirare ti ritrovi la pelle del tuo collo nelle spalle o che quella delle spalle vada a finire sotto il mento. Scusami ma questo neo mi piace troppo… Io bacio…”
“ Bacialo pure. Comunque non è un neo che stai baciando: mi stai baciando il…”

35 regole per salvare la natura

1) Non buttare sigarette accese nei nidi: puoi uccidere una famiglia.
2) Non buttare bombe accese davanti ai cani, agli uccelli, ai gatti o all’erba innocente.
3) Non buttare bombe nelle fogne: potresti causare danni agli animali.
4) Non buttare sigarette o bombe nel recinto del parco: potresti uccidere oche o anatre.
5) Non buttare rifiuti accesi: potresti causare un incendio.
6) Non sparare agli animali.
7) Non fumare: gli animali respirano il tuo fumo. Pure gli adulti, i neonati e i bambini.
8) Non accendere fuochi nelle rose.
9) Non abbandonare bombe accese nella natura.
10) Non buttare gas sotto il letto.
11) Quando vedi una linea rossa non andarci: potresti morire.
12) Non toccare la corrente.
13) Non prendere le uova degli uccelli: è ucciderli.
14) Non incendiare i boschi.
15) Non uccidere gli alberi.
16) Non buttare il tuo telefonino: si potrebbe incendiare.
17) Non distruggere le ragnatele.
18) Non uccidere gli uomini.
19) Non lanciare libri infuocati per terra.
20) Non incendiare la tua camera.
21) Non uccidere le volpi.
22) Non picchiare gli uccellini piccoli.
23) Non fare fuochi grandi e non toccarli.
24) Non incendiare i computer.
25) Non buttare sigarette accese.
26) Non bruciare la terra: bruceresti anche l’erba.
27) Non strappare le piante.
28) Non lanciare sassi infuocati.
29) Non sparare agli scoiattoli.
30) Non regalare accendini ai neonati.
31) Non sparare al bosco: lo potresti distruggere.
32) Non incendiare i lavandini.
33) Non correre quando vedi un’oca: potresti farle male.
34) Non incendiare la tua casa.
35) Non buttare sigarette accese nei treni.

La via perduta

La via perduta la riconosci subito, anzi è lei che riconosce te. La gente, le case hanno qualcosa di familiare anche se sulle prime non sapresti dire che cosa. E poi c'è una musica nell'aria, un profumo che non sentivi da molto, un cuore che batte. E improvvisamente sbuca da una casa un cane, il tuo cane che ti fa le feste e ti lecca la mano.

L'uomo sfortunato

L’uomo sfortunato è basso di statura. Quando si sposa, se si sposa, trova una moglie più bassa di lui o, colmo di sfortuna, una molto più alta. L’uomo sfortunato non ha figli. Se ne ha ne ha uno soltanto e rassomiglia alla madre o, peggio ancora, al padre. L’uomo sfortunato vive in affitto in una casa piena di muffa e tutte le mattine per le scale deve pulire una pisciata di cane. L’uomo sfortunato ha la sfortuna di lavorare e il suo è sempre un lavoro di merda. L’uomo sfortunato ha la chierica a venticinque anni.
L’uomo sfortunato la domenica mangia pollo. All’uomo sfortunato non spetta mai il petto, l’ala o la coscia. All’uomo sfortunato spetta sempre il buco del culo.

Da quando

Da quando, tre anni fa, mia moglie ha comprato il libro della Milena Esposito "Settemila modi di cucinare la pasta e fagioli in allegria", ho come l'impressione che i menù siano un po' monotoni a casa mia. Non che sia il tipo che ama sperimentare o esplorare, specialmente in cucina. Con la pasta e fagioli vado sul sicuro e so cosa mangio. Solo che penso che ogni tanto, senza esagerare però, bisogna variare anche perché non vorrei passare per uno che mangia sempre le stesse cose. Per domenica prossima una mezza idea ce l’avrei: un bel piatto di pasta e piselli! E’ da un pezzo che ci penso e devo solo decidere di lasciarmi tentare ma prendere delle decisioni così gravi non è semplice. Ho delle abitudini che non vorrei sconvolgere e necessito di tempo per adattarmi psicologicamente alla novità. Una pasta e piselli non si decide così su due piedi. Ti potrebbe anche fare male se non sei preparato alla cosa. L’anno scorso in un ristorante del molisano un uomo è morto vedendosi portare a tavola una pasta e piselli che non aveva ordinato. Allora, che faccio? Prendo il mio coraggio a due mani e mi aggiudico la pasta e piselli o devo aspettare ancora un po’? Non mi chiedete però di battere altre strade. Sinceramente non me la sentirei di affrontare una pasta e lenticchie o altro ora. Prometto però che dopo la pasta e piselli, magari per Natale o meglio ancora per capodanno con lo zampone, se dovessi spingermi oltre, un pensierino lo farò. Ci potete contare. D’altra parte una bella pasta e ceci non sfigurerebbe e forse neanche la pasta e zucca ma non bisogna chiedere troppo e tutto in una volta a questo povero uomo. Comunque mi dovete credere: io la buona volontà ce la metto tutta.
Dire che al Nord mangiano polenta tutti i giorni!

lunedì 3 agosto 2009

Il gatto del principe azzurro

- Chi sono io ?
- Lei è l’autista !
- “Le chauffeur”. Tu invece chi sei?
- Sono la tartaruga, “la tortue”.
- Sei la tartaruga mannara, “la tortue garou”. Le notti di luna piena, di “pleine lune”, ti trasformi in cane. Ma hai una fase intermedia di pochi secondi: prima di trasformarti in “chien” diventi Hulk. Tu invece?
- Io sono “le château”, il castello. Martina può essere il principe azzurro?
- Martina vuoi essere “il prince charmant du Château”? Bene, e tu chi vuoi essere? Ah, vuoi andare in bagno? Va bene, vai… Quella che miagola in fondo sarai “le chat”, sì, Lorenza sarai “le chat du prince charmant” Che fine ha fatto “le chat du prince charmant”?
- Si è nascosto, prof.
- Dove?
- Nel castello, ovvio…
- En français…
- « Dans le château du prince charmant. »
- « Le chat est dans le château du prince charmant ? » Allora ci vuole un topolino per farlo venire fuori… Paoletta, sei “la souris” e tu sarai…
- “La princesse”, prof.
- Ok. Come facciamo per catturare la “souris”?
- Bisogna dire tre volte "fromage", così: “fromage, fromage, fromage”. “Voilà la souris!”
- “Le chat”, cosa dici?
- “Et voilà le chat!”
- “Tortue”, intervieni!
- Ora sono Hulk: "je mange le chat”. Mi pappo pure « la souris ». Che buona « la souris » !
- Un attimo ragazzi che c’è il bidello!
- Il bidello è il Gobbo di Notre-Dame!
- Tu “prince charmant”, tanto per cominciare devi rispetto al “Bossu di Notre-Dame”. (al bidello) Non si offenda, devo scrivere “bossu” alla lavagna…
- (Il bidello) Professore, come si dice lo scemo del villaggio?
- “Le fou du village…” Perché?
- Per niente, una curiosità…

giovedì 30 luglio 2009

Canto d'amore

In piedi dietro il suo carrello, l’aria smarrita nella corsia dei surgelati, canta una balena. Il suo canto è una vibrante melodia di ultrasuoni che l’orecchio umano non è in grado di udire e tanto meno di interpretare. La balena si sente sola senza il maritino che ha perso di vista appena entrati nel supermercato. Lei si era fermata perché attratta da una promozione su una pizza, lui aveva proseguito diritto adescato da una promessa di fritto misto. Eccolo - è una balena pure lui - contro il bancone della pescheria a desiderare i suoi consimili. Sente il richiamo della moglie. E’ bellissimo, toccante, pizzica le corde giuste. E allora non sa resistere. Alza gli occhi al cielo, insomma al soffitto, e lancia il contrappunto più struggente che l’amore possa ispirare. Presto sarà da lei, le note che attinge dal più profondo del cuore volano alte nel blu e si tuffano mute in un oceano che solo i loro occhi umidi sanno vedere. Il supermercato è ora in tempesta, le onde s’infrangono sulle casse delle sirene, i flussi trascinano via dei clienti e ne portano altri in un rotolare continuo di sassi levigati mentre i gabbiani impazziscono sulle scie spumose. Il marito, nuotando controcorrente, ha raggiunto la moglie. Il bagnino infreddolito alza la bandiera rossa. I bambini sono troppo presi dalla costruzione dei loro sogni di sabbia per dare ascolto ai genitori.

giovedì 23 luglio 2009

Reality show

“I nominati facciano un passo avanti ! Dove stai andando? Un passo ho detto! Passo ora alla lettura del risultato del televoto. La persona…
che…
dovrà lasciare il gioco…
e che…
di conseguenza…
sarà con noi in studio mercoledì prossimo…
è…
Gesù!
Barabba sei salvo!”

mercoledì 22 luglio 2009

Le novene

Le tenebre hanno appena dissipato gli ultimi raggi di un sole stanco quando i tre ragazzi affrontano la ripida salita delle Filippine. Una volta arrivati in cima l’illuminazione è definitivamente affidata alle lucciole, agli astri notturni e al cono di luce di una pila tascabile. La strada costeggia alcune villette e sprofonda definitivamente nell’oscura campagna. A sinistra, un’interminabile siepe di rovi con la sua sinfonia di cicale. A destra, «un orto gentil, cinto di vaghe mura, ove sempre frondeggia april vezzoso» che accompagna i nostri amici sino alle rovine della Villa Giustiniana, la residenza estiva del vescovo del Nebbio dalla quale si godeva di un panorama suggestivo sulla città di Bastia e l’arcipelago toscano. In lontananza, sospese nel buio come in un presepe, le luci del convento cappuccino di Saint-Antoine. Ma la tiepida notte di giugno è di buona compagnia con i suoi rumori e i suoi odori che sanno già d’estate. E’ impossibile avere paura in una notte come questa anche se un po’ conviene affrettare il passo davanti all’informe e anonimo cimitero di famiglia che improvvisamente si erge davanti a loro. Affrettare il passo e fischiettare. Ma ormai il più è fatto. Il convento non è molto lontano. Ancora qualche passo e sono arrivati. I tre ragazzi riconoscono, sedute sul muretto della piazza della chiesetta, le ragazze che commentano con un sorriso il loro arrivo. Un fischio d’apprezzamento, delle risate soffocate e i due gruppi si fondono in uno più grande. Quando i giovani entrano in chiesa può cominciare la prima notte di novene di Sant’Antonio da Padova. Ad un certo punto l’officiante intona il tanto atteso “Si queris miracula”. E tutti assieme, in un coro celestiale, riprendono senza capirle le parole in latino della preghiera.

"Si quaeris miracula
Mors, error, calamitas
Daemon, lepra fugiunt,
Aegri surgunt sani."

La preghiera dei fedeli vola alta nel cielo come da una campana a velo ed è sempre gradita al santo che non se ne avrà a male se per molti una lepre fugge davanti al demonio.

"Caedunt mare, vincula,
Membra resque perditas
Petunt et accipiunt
Juvenes et cani."

La parola, “vincula”, che nessuno osa troppo interpretare, viene appena sussurrata dai timorati mentre i giovani fattisi improvvisamente spavaldi la cantano ad alta voce ad un’assemblea scandalizzata. Un uomo si volta, cerca con gli occhi infuocati un ragazzo che potrebbe essere suo figlio e gli rivolge un cenno minaccioso che sembra significare: “Con te facciamo i conti a casa!” Il giovane capisce la minaccia, si ammutolisce rosso dalla vergogna e abbassa lo sguardo.
Solo un ristretto gruppo di fiere bigotte sembra conoscere la terza strofa:

"Pereunt pericula,
Cessat et necessitas;
Narrent hi qui sentiunt,
Dicant Paduani."

Ma l’intera comunità si ricompone cantando gli ultimi due versi:

"Gloria Patri et Filio
Et Spiritui Sancto"

La messa è finita, i fedeli speranzosi sono già usciti ed è venuta l’ora per i ragazzi, che hanno perso di vista le loro coetanee, di stringersi fischiettando dietro al loro cono di luce e di lasciarsi guidare dalla lucciole e dagli astri.
Alle loro spalle, come in un presepe fuori stagione, il convento risuona di preghiere e veglia su una Bastia assonnata.

mercoledì 8 luglio 2009

Sui passi di Edith Southwell


Il famoso pittore Guido Colucci si è recato ieri alla gendarmeria di Bastia per denunciare la scomparsa della moglie, la signora Southwell, etnologa e studiosa delle tradizioni popolari dell’isola di Corsica, avvistata l’ultima volta nel villaggio balagnino di Lumio venti giorni orsono. Da allora non si hanno più notizie di lei. Conosciamo la passione e l’entusiasmo della signora Colucci per la nostra isola che l’hanno condotta sino nei paesi più piccoli e lontani alla ricerca sul campo, come ama dire, della testimonianza diretta e genuina della popolazione locale. Di prossima pubblicazione, a quanto pare, una raccolta di poesie, proverbi, voceri e leggende frutto di anni di indagini e minuziosa trascrizione.

La signora Southwell è una donna a dire poco indipendente. Spesso accade che per condurre le sue indagini etnologiche manchi da casa per diversi giorni. Le sue assenze non si sono mai protratte tuttavia oltre venti giorni e questo tenendo conto degli spostamenti estremamente difficoltosi all’interno della Corsica. A quanto ci hanno riferito delle persone a loro vicine, i Colucci non hanno ragione alcuna di temere per la loro sicurezza, non avendo nessun nemico, né personale, né politico pur essendosi la coppia a più riprese dichiarata contraria all’annessione dell’isola all'Italia. L’ipotesi che lo stesso pittore e i gendarmi paventano è quella di un incidente durante uno di questi spostamenti che spesso, per la scarsità di mezzi pubblici di linea, avvengono su delle carrette rudimentali trainate da muli o asinelli. Tutto può succedere: un cedimento della strada o persino che la bestia s’imbizzarrisca e provochi la caduta dei suoi passeggeri da un ponte o nei purtroppo famosi burroni corsi.

Mentre organizza la sua partenza con le forze dell’ordine alla ricerca della moglie, chiedo al signor Colucci che cosa secondo lui abbia portato la signora ad avventurarsi in un paesino così sperduto come Lumio. Il signor Colucci è un uomo intorno alla quarantina, di media statura, curato nell’aspetto e nel modo di vestire, che una donna potrebbe definire molto piacente. Si mostra cortese e disponibile, nonostante la preoccupazione traspaia da ogni suo sguardo e da ogni suo gesto. Sua moglie, mi dice con un lieve accento napoletano, è stata chiamata un mese fa in Balagna per assistere alla veglia funebre di un vecchio pastore per la quale sarebbero state presenti delle prefiche che conoscono dei voceri antichi. Avrebbe, inoltre, approfittato dell’occasione per descrivere alcune chiese pisane lungo il percorso. Altro non sa.

Essendo questo un periodo morto per il nostro giornale ho ottenuto dalla redazione licenza di accompagnare i gendarmi e il signore Colucci e di riferire di ogni progresso dell’indagine. L’intera cittadinanza è in ansia per la sua beniamina e ha diritto di sapere che cosa possa esserle accaduto per quanto spiacevole.

Partiamo quindi abbastanza presto da Ville di Pietrabugno prendendo la decisione, mentre risaliamo la città di Bastia lungo i suoi boulevard, di raggiungere il paese di Lumio passando per il colle di Teghime ai piedi del Pigno poi giù per Barbaggio, Patrimonio, Saint-Florent e il temuto, almeno dal sottoscritto, deserto degli Agriates. E’ possibile passare per Ponte Leccia lungo il letto del Golo, oltrepassare Calvi e arrivare infine a Lumio. La prima rotta è stata preferita non soltanto perché più vicina alla destinazione ma anche e soprattutto perché si ritiene che la signora Southwell, che non fa mistero del suo amore per il Nebbio, potrebbe passare da lì per tornare a Bastia.

Sono nato e vissuto in quest’isola ma raramente mi sono avventurato oltre l’immediata periferia di Bastia. La nostra vettura è una trazione avanti nera che potrebbe portare sino a sei persone. Mi siedo dietro il comandante di brigata di gendarmeria, un omone corpulento e dotato di due magnifici baffi neri. Al posto del passeggero, il signore Colucci. Siamo preceduti da un’altra vettura occupata da quattro gendarmi in tenuta d’ordinanza. Fuori dai finestrini, la primavera.

Il panorama è di una varietà di colori a cui nessun pittore potrebbe rimanere indifferente e Il Colucci non sembra affatto insensibile alla maestosità del paesaggio che improvvisamente si apre sul lato sinistro. Il cordone lagunare di Biguglia trattiene uno stagno pescoso sulle cui acque si riflette un cielo che l’avvicinarsi dell’estate rende sempre più blu, a destra una catena di monti addossati l’uno sull’altro che, come dei ragazzacci di strada, sembrano giocare a ciccia. A Teghime la macchia mediterranea si è fatta più rada e bassa, lasciando qua e là emergere dei grossi blocchi rocciosi, autentici speroni sulla natura selvaggia. Ma non ci possiamo fermare, non con dei gendarmi in servizio.

La strada scende improvvisamente verso Barbaggio, un piccolo villaggio con due case e altrettante tombe di famiglia nei loro orti. Subito dopo Barbaggio, Patrimonio. All’ingresso del paese, proprio sotto il cartello di benvenuto, un’enorme botte di vino illustra al viandante le specialità del luogo e con una scritta invita all’assaggio. Questa volta ci fermiamo.

Un giovane pastore, con una lunga barba incolta e addosso il suo pilone di capra ci guarda con la stessa espressione incuriosita del suo grosso cane ma i gendarmi lo ignorano autorevolmente e entrano in una bottega da cui emana un forte odore di vino e di moscato. L’interno è come uno può immaginare: quattro botti di legno, delle damigiane e delle bottiglie vuote e piene sparse in ogni luogo.

Cum’è u vinu quest’annu?”, chiede il comandante di brigata.
E cume ha da esse? U vinu qui hé sempre più bonu!”, risponde ridendo il produttore. “Ajò chi ne bejimu un bicchjeru!” Ci porge dei bicchieri, ce li riempie di un buon vino rosso poi si serve a sua volta.

A la salute!”
“A la salute!” rispondiamo tutti insieme. Uscendo la nostra inchiesta non è avanzata di un solo millimetro ma la vita ci sembra meno tragica.

La chiesa di San Martino è la nostra prossima tappa ed è qua a due passi che facciamo volentieri. L’edificio religioso è spesso stato al centro delle discussioni dei Colucci per delle ragioni che non tardo ad conoscere. Apprendiamo da un’iscrizione che la chiesa data del 1653 e che nel secolo scorso è stata restaurata ed è stato aggiunto l’attuale campanile. All’esterno, si notano subito i numerosi fori praticati nei blocchi non intonacati che hanno servito ad assicurarvi i ponteggi usati per la sua costruzione. Entrando capisco che per il famoso pittore la visita alla chiesa è più occasione per ammirare i dipinti che ne decorano l’interno che per cercare la propria moglie. E’ estasiato, in contemplazione, davanti alle scene della cristianità ma anche e soprattutto davanti a dei dipinti che non avrebbero attratto la mia attenzione se non mi avesse detto che hanno un significato esoterico come quello che sembra rappresentare un cigno che muore dando il suo sangue per nutrire i propri figli.

“Simboli massonici”, mi dice a bassa voce.
Non ho un’idea precisa di che cosa sia la massoneria ma dal tono della voce non appare un argomento da trattare con leggerezza, in speciale modo in un luogo che potrebbe essere il loro quartiere generale.

Il nostro viaggio prosegue verso la baia di Saint-Florent. La cittadina è dominata dalla cittadella costruita in sua difesa.

“Faceva gola a Nelson”, ci dice il signor Colucci.
“Ah, sì? Chiedo nella mia ignoranza.
“Saint-Florent era considerata di grande importanza strategica in quel periodo. Qui si trova una chiesa del dodicesimo secolo che non mi dispiacerebbe affatto visitare. Si tratta di Santa Maria Assunta sulla strada di Poggio d’Oletta. Mia moglie potrebbe avere avuta la stessa idea.”
“Sbaglio o mi ha detto che sua moglie avrebbe visitato una chiesa pisana?” lo interruppe il gendarme.
“Ma è pisana” protesta il pittore.
“ah!”, si arrende il militare.

La cattedrale del Nebbio, un tempo sede vescovile, si trova a meno di un chilometro da Saint-Florent. Esternamente, ricorda la Canonica vicino a Lucciana, almeno per il mattoni calcarei in alternanza di toni. L’interno è costituito da tre navate e da numerosi pilastri con, scolpiti, animali o motivi floreali. I gendarmi, che non sembrano molto interessati all’arte religiosa, ne approfittano per fumare una sigaretta e chiacchierare sul sagrato. Dalle risate che sentiamo all’interno della chiesa giurerei che ne sono arrivati alle barzellette. Dentro non c’è nessuno a parte io e il signor Colucci e appare quindi ovvio che qui la sua signora non ci sia. Quasi a malincuore, riprende il viaggio verso Lumio.

Dopo Saint-Florent, ci addentriamo nel deserto degli Agriates. E’ un nome che un po’ mette paura: non vorrei ora che le nostre automobili avessero dei problemi proprio in pieno deserto! Il paesaggio non è tuttavia completamente desertico. La roccia, è vero, è l’elemento dominante ma affiora ancora abbondante la vegetazione anche se piuttosto bassa come il cisto, il mirto, il corbezzolo, l’ ulivo e la quercia. Il pittore guarda il paesaggio sfilare dal suo finestrino come se sperasse trovarvi la moglie o, molto più probabilmente, cercasse di imprimere nella sua mente la bellezza del luogo per riprodurla in un secondo tempo sulla tela.

“Un coniglio!” m’esclamo vedendone uno attraversare velocemente la strada e andare a nascondersi dietro un cespuglio di cisto. L’incidente sembra avere ridato il sorriso al pittore e penso che solo un pittore o un matto potrebbe sorridere in un deserto! In lontananza, i monti del Tenda sotto un potente sole allo zenit.

“A Casta ci fermiamo per mangiare qualcosa”, annuncia il comandante.
“Se permettete vi faccio assaggiare un formaggio di pecora che è un capolavoro…”

Casta più che un paese è un agglomerato di due case e neanche vicine l’una all’altra. Ci fermiamo sotto la prima la quale sorge sul costone sul lato sinistro della strada e seguiamo un sentierino che sale sino all’ingresso al primo piano. Entrando il comandante saluta e ci presenta. Una calorosa stretta di mano poi ci sediamo su delle sedie un po’ sbilenche intorno a un tavolo che viene apparecchiato alla bella e meglio dal padrone di casa. Il luogo, più che un punto di ristoro sembra la casa di un pastore. In fondo, un camino acceso continua ad annerirne le pareti e il basso soffitto. A una trave sono appese alcune salsicce, dei lonzi, dei figatelli e delle coppe mentre su un vecchio tavolo di castagno alcune forme di formaggio profumano l’ambiente. Un paio di galline e una pecora entrano ed escono liberamente.

Il padrone di casa è un tipo piuttosto basso e scuro di pelle. Un po’ di grigio sulle tempie.
Ci porta un’intera forma di formaggio, dei salumi e, per tagliarle, delle vendette corse dalla lunga lama e il manico di osso. Un goccio di vino rosso non può ovviamente mancare.
O Ghjisè!” dice il brigadiere Battesti, quello pelato senza baffi, “cum’è quella canzone chi m’hai cantatu l’altra volta? Ci la poi cantà?”

Il nostro ospite non ci mette molto per assumere una posizione da serenata, come rivolgendosi alla persona amata da sotto al suo balcone o a un pubblico in piccionaia. Beve un sorso di vino, si schiarisce la voce e canta il sublime lamentu di una ragazza innamorata che vede partire il fidanzato chiamato a fare il militare:

Se ne parte lu mi falcu
E pe’ aria si ne vola,
Cume aia da passalu
Lu mi tempu cusì sola?
Che iornate cusì triste
Cume chiodu negru in tola.
Di passata pa’ u chiassu
Ti cunuscia a scherpata
Ma parlà un si putia
Che mi tenianu serrata
Un ci sia nessun donna
Cume me disgraziata

Si putessi fa lu giru
Chellu che face la luna
E po vedeti nellu finu
Caru di la mi fortuna!


Il dolore, lo strazio della separazione ingiusta e crudele ci viene rappresentato come una tragedia greca in una terra dimenticata dagli dèi. Ma le donne corse, all’immagine della Corsica intera, si rafforzano nella separazione, nell’abbandono e nella morte. Terminiamo mestamente il nostro pasto e ci congediamo da Ghjisè. Preso dalle parole e dalla melodia non mi riesce di capire chi abbia pagato il conto ma credo che mi convenga starmene zitto.

Il deserto è ancora lì, in attesa, come non sapendo se ucciderci o farci felici.
Colucci è cupo. Più la macchina si avvicina a Lumio e più mi sembra abbattuto. Il lamentu, forse, oppure il timore, se non la certezza di non rivedere più la propria moglie. Sente di trovarsi sotto un cielo immenso che non riconosce le sue creature, esseri fragili in balia del destino. Un’immagine attraversa la sua mente. Non la può scacciare, anzi ogni tentativo di mandarla via la fa tornare ancora più forte e nitida della volta precedente. E’ una veglia funebre, con i voceri e i pianti strazianti. Ma sul tavolo mortuario, a tola, c’è lei, sua moglie, che oggi ama come non l’ha mai amata prima. Gli tornano alla memoria alcuni versi di un voceru raccolto da lei stessa qualche anno prima a Castello di Rostino:

Piangi, o Marì Francè,
Tu chi si zitella sposa
Pichierai alla mia porta
Quando ti manca qualcosa
Giungerai a ritrovarmi,
Ma la troverai chiosa.


La strada è ancora lunga, la stanchezza comincia a farsi sentire e i diversivi si fanno sempre più rari. Siamo finalmente arrivati a L’Île-Rousse. Ci fermiamo appena il tempo di rinfrescarci a una fontana rinunciando di fatto a alla contemplazione delle sue coste rocciose. Uno sguardo, forse, dal finestrino, per vedere se effettivamente sono rosse…

Lumio, villaggio di luce sulla baia di Calvi. Accostiamo davanti alla prima casa alla cui finestra si è appena affacciata una vecchia signora vestita di nero. Le chiediamo dove possiamo trovare la casa della famiglia Raffalli. Si fa il segno della croce e ci spiega che la possiamo trovare poco più in là di fianco alla bottega.
Parcheggiamo le macchine sotto l’abitazione che ci è stata indicata e bussiamo alla porta. Ci apre una donnina energica, anch’essa vestita di nero. Ci fa entrare.

“Madama”, chiede il comandante di brigata, “La conoscete la signora inglese venuta qui il mese scorso?”
“Sì, che la conosco!”, risponde. “E’ la signora che fa tante domande e scrive i nostri voceri. Sta ancora a casa di mia cugina Assunta, credo..."

“E' ancora in paese, signora! Ma come mai ci è rimasta così tanto?" chiede Colucci.

“Il fatto è che pensavamo che mio marito sarebbe morto presto come ci ha detto il medico ma Antonini, il murtulaghju del paese, ha chiesto alla morte qualche giorno di vita in più perché ha fatto solo del bene. Dio abbia pietà della sua anima… Ma non sarete come quei continentali che non credono a queste cose?”
“Ci crediamo!”, protesta il gendarme Battesti. “Ho uno zio murtulaghjiu che ha interceduto per molte persone che stavano lasciando questo mondo…”

“E' sicura che è ancora in paese?”, chiede il signore Colucci.
“Dovrebbe, sempre che non sia andata a Calvi a parlare con un altro murtulaghjiu come mi disse la settimana scorsa. Vi accompagno da mia cugina Assunta…”

Ci addentriamo in una viuzza stretta. Ho qualche difficoltà a camminare sull’acciottolato reso scivoloso dall’acqua di panni recentemente stesi a una finestra. Bussiamo. E chi ci viene ad aprire, miei cari lettori? Lei, la bella Edith Southwell-Colucci. Sorride, anzi, ride dalla felicità.

“Amore mio!” dice lanciandosi nelle braccia del marito. E’ un abbraccio lungo e forte ed è un bacio d’amore.

“Entrate!”

Entriamo e quel che vediamo ci strappa un sorriso tenero e vale mille spiegazioni: un neonato nella sua culla e la mamma premurosa che gli canta una ninna nanna.

Pighianu all’usciu
So li gendarmi fora
Cercanu a Babbitu
Ma quist’è una trist’ura
Babbitu è in campagna
Duvè lu farà dimora.
Fa la ninna, e fa la nanna
Figliulellu dilla mamma.


[il lamentu, il vocero e la ninna nanna sono stati pubblicati in Chants Populaires Corses alle Edizioni Mediterranea]

sabato 27 giugno 2009

La poule au pot


Se c’è un re che mi ha rovinato l’esistenza questo è sicuramente Enrico IV re di Francia e di Navarra. Non per l’Edito di Nantes, che proprio non c’entra con la mia vicenda, ma per quella dannata poule au pot che aveva promesso ai francesi.

“Voglio”, disse più di una volta, “che ogni contadino possa mettere il pollo in pentola la domenica”. Non era preoccupato per le abitudini culinarie dei suoi sudditi, questo no: a lui premeva invece che, per la durata del suo regno, ognuno potesse mangiare degnamente almeno un giorno la settimana. Da allora pare abbia origine la tradizione dei francesi di far bollire quel maledettissimo pollo farcito di verdure tra cui il cavolo che non è di certo tra le mie preferite. Personalmente, non ho niente contro il pollo a patto che venga messo al forno. Così, sì che fa figura sulle nostre tavole. Bollito fa schifo. Fa schifo sia per la pelle che diventa gommosa che per l’aglio e la cipolla che inevitabilmente galleggiano nel suo ripugnante brodo oleoso.

Noi eravamo italiani convinti, soprattutto in cucina, e in teoria dovevamo essere immuni. Da buoni emigrati avevamo quindi ravioli e gnocchetti sardi garantiti la domenica. Non avevamo tuttavia fatto i conti con una certa donna di finestra – sia maledetta per l’eternità – che, con tutta la perfidia di cui fu capace, comunicò a mia madre la fatidica ricetta.

La prima volta, resistetti cinque buoni minuti prima di andare a vomitare il tutto in bagno. Le volte successive, i tempi s’accorciarono. Non erano epoche quelle in cui ti potevi permettere di scegliere quello che stavi per mangiare per cui mi rassegnavo ogni volta il capo chino cercando almeno di evitare l’aglio e la cipolla bollita e lasciando la pelle per ultima nella speranza che i miei si scordassero di obbligarmi a masticarla lungamente e, con un atto di coraggio, mandarla giù.

Dopo anni di tortura dominicale, il giorno che vomitai nel mio piatto mio padre sbottò: “E basta con questa porcheria!” Fu così che scoprii in mio padre il più prezioso degli alleati e che la poule au pot, per la mia grandissima gioia e per quella dei miei fratelli e sorelle, fu bandita dal nostro regno.

giovedì 18 giugno 2009

Lo sconosciuto

Eravamo due persone diverse, completamente diverse, e ancora lo siamo. Forse un po’ lo conoscevo, così come si conoscono le persone che per un attimo incrociano il nostro destino.

Mi accorsi della mia trasformazione in ufficio o meglio una mia collega se ne accorse per prima. Ricordo che era un venerdì e che mi ero messo a contare i minuti che mi separavano dal mio amato fine settimana.

Adalgisa, la collega, mi disse: “Che cos’hai ? Cammini in modo diverso…“
“Diverso?” chiesi stupito.
“Da qualche giorno cammini … come Charlot, ecco, l’ho detto!”

All’ingresso abbiamo una porta-finestra vetrata che, oltre a lasciare entrare la luce, la mattina ci permette di dare un’ultima occhiata alla nostra mise. La vetrata mi rimandò effettivamente una camminata alla Charlot, con la punta dei piedi verso l’esterno. Ci rimasi male anche se per il tempo che trascorsi ancora in ufficio non lo diedi da vedere, almeno nelle mie intenzioni.

A casa evitai di camminare davanti ai miei famigliari, con la scusa di un dolore alle ginocchia. Il giorno seguente non uscii, rinunciando pure alla nostra ormai consueta passeggiata del sabato pomeriggio. I miei figli, maschi, quattordici e dodici anni, ringraziarono. Alla loro età un po’ si vergognavano di farsi vedere nel parco con papà e mamma. Uscirono quindi per conto loro e mia moglie andò a trovare la sorella dall’altra parte della città. Finalmente solo. Potevo cercare di correggere il mio modo di camminare provando ad allineare il più possibile i due piedi. Dovevo pensare ogni passo, costringermi a camminare normalmente. Andavo e venivo nel lungo corridoio imponendomi di rimanere nei limiti delle due mattonelle di trenta centimetri. Mi esercitai per tutto il pomeriggio finché non furono visibili i risultati.

La domenica azzardai qualche passo fuori casa, sorvegliando il mio incedere ogni volta che passavo davanti alla vetrina di un negozio. Apparentemente, tutto era tornato alla normalità.

Il lunedì rientrai in ufficio sapendo di dover passare il test decisivo, quello di Adalgisa, a cui non sfugge mai nulla, maledetta. Vidi che sorrideva, come se avesse capito che le avevo fatto uno scherzo. Interpretai il suo sorriso come un okay definitivo.

Poi, sapete com’è, il tempo passò. Dimenticai l’accaduto e non prestai più attenzione al mio modo di camminare.

Una mattina, guardandomi allo specchio, notai un’espressione che non mi conoscevo. Avevo la faccia interrogativa di uno che ha perso la strada in un paesino di trenta abitanti. Anche questa fu una dura battaglia. Mi costò due weekend solo a casa a fare degli esercizi davanti allo specchio.

Un’altra volta dimenticai, abbassai il livello di guardia, e non mi accorsi dell’attacco finale scoccato a tradimento mentre meno me l’aspettavo. Quel venerdì, rientrando a casa, ero un altro uomo. Davanti allo specchio grande dell’armadio capii che tutto era cambiato in me: era tornata la camminata alla Charlot, ero rimpicciolito, grasso, i miei capelli erano grigi con un’orrenda riga a destra e avevo un’altra faccia con l’espressione da ebete. Mia moglie e i miei figli ancora non erano tornati. Come al solito lei era andata a prenderli all’uscita di scuola, come se alla loro età non potessero tornarsene da soli! Mi precipitai fuori, sperando di incontrali per strada, che mi riconoscessero…

Li vidi. Con loro c’ero io e c’era pure Bobby, il nostro cane... Sorridevo, felice. Pensai in quel momento che se lui era diventato me, io ero diventato lui. Ero un mostro… Odorandomi le mani mi accorsi che puzzavano di pesce. Che schifo, ero diventato un pescivendolo!

Non mi avvicinai troppo e non dissi niente. Li accompagnai verso casa, stando mezzo metro dietro. Entrai con loro.

Lui si voltò:“Che ci fa lei in casa mia?”
Come? Io? Ma questa è casa mia! Guardai mia moglie, i miei figli, il cane.
“Bobby!”Si mise a ringhiare.
“Esca di casa nostra!” Disse mia moglie.
“Ma…”
“Esca, o chiamo la polizia!”

C’era uno specchio, quello davanti al quale avevo fatto i miei esercizi. Rifletteva l’immagine di uno sconosciuto e questo sconosciuto ero io. Allora mi diressi verso la porta, sconfitto.Poi guardai il cane, la sua cuccia, la sua pappa, il suo osso.

E decisi che sarei diventato lui.

domenica 14 giugno 2009

Treni

In Francia davanti ai passaggi a livello troviamo spesso dei cartelli con la frase seguente:

ATTENZIONE UN TRENO PUO' NASCONDERNE UN ALTRO

Mi dico però: se il primo ne può nascondere un altro allora anche quest'altro ne può nascondere un altro ancora. Procedendo con la logica della matriosca, possiamo arrivare a una moltitudine di treni nascosti uno dentro l'altro e a concepire filosoficamente l'infinitamente piccolo.

Se invece poniamo un limite al fenomeno fissandolo a venti-trenta treni possiamo immaginare, all'interno dell'ultimo treno, non un treno come sarebbe stato logico aspettarci, ma i passeggeri, anzi un solo passeggero, piccolo piccolo, con i baffi alla Poirot, senza bagagli perché non c'è posto per i bagagli nei treni francesi.

Con questo non voglio dire che i francesi sono piccoli di statura e tantomeno voglio vantare le ferrovie italiane. Fanno schifo le ferrovie italiane.

Voglio solo sciogliere un dubbio per chi si appresta a lasciare il nostro paese: se avete l'intenzione quest'estate di recarvi in Francia per turismo o altro, non vi preoccupate se prendete venti o trenta treni per volta. L'importante che vadano tutti nella stessa direzione e che si paghi un solo biglietto.

lunedì 1 giugno 2009

L'orrore che semina morte

Alle spalle i passi pesanti di un dinosauro. Non c’era vicino un burrone per fermarlo, una grotta, un antro dove rifugiarmi. Che potevo fare io piccolo e fragile, con la mia paura, con le mie armi derisorie, così inutili contro l'orrore che semina morte? Poi mi voltai e vidi un bambino grasso con la brioche.

venerdì 22 maggio 2009

Dieci anni

Il 1999 lo ricordo come fosse ieri non solo perché era l’anno dell’eclisse o perché come tutti aspettavamo il millenium bug e le sue incontrollabili conseguenze. Eravamo in attesa sì ma del nostro secondo figlio.

Lo volevamo così com’è ora, un po’ dispettoso ma tanto coraggioso: quando saremmo invecchiati ci avrebbe pensato lui a difenderci. Lo immaginavo nell’atto di buttare pentoloni di olio bollente sul nemico o più semplicemente di rispondere pesci in faccia a chi se lo merita, cose che non so fare…

L’avventura prese inizio a maggio di dieci anni fa quando avevo la pancia più grossa di quella della mia metà. Ricordo le preoccupazioni, le lunghe attese dal mio ginecologo, le visite specialistiche di cui nessuna rimborsata, il caldo, i pruriti, i fastidi. Stavamo procedendo magnificamente verso il grande evento.

Inverno 2000, mia moglie volle assistere ad ogni costo e nonostante le avessi fortemente sconsigliato di farlo. Ricordo le urla disperate di mio figlio che si affacciava alla vita ma nacque sano con tutte le dita a posto. Sapeste come beveva il mio latte! Era uno spettacolo vederlo!

Fui dimessa quattro o cinque giorni dopo. Finito il congedo forzato per maternità, rientrai al lavoro dove non vedevo l'ora di ritrovare le amiche e parlare di pappe e di pannolini. Se non sei mai stato mamma non puoi capire le gioie della maternità e come questa ti cambi dentro, nel profondo.

Oggi ho due ragazzi che mi danno grandi soddisfazioni e un marito che vorrebbe tentarsi il terzo ma sinceramente, ho già dato.

lunedì 18 maggio 2009

Causa persa

Non so se valga ancora la pena battersi per la causa di cui ora ti parlerò ma le voglio comunque dare un’ultima possibilità la prossima estate. Vivo in un paese sperduto della Sardegna che non può più contare su niente per sopravvivere, né sull' agricoltura, né sulla pastorizia. Non che nessuno voglia più fare l’agricoltore o il pastore, il fatto è che non ne vale la pena. In quanto all’edilizia viviamo ancora nelle nostre vetuste case di paglia e fango ricoperte da malandate tegole sarde. Spinti dalla disperazione, un po’ anche dalla rabbia e dalla paura di dovere cercare lavoro fuori, come hanno fatto molti compaesani, abbiamo pensato, insieme a qualche anima buona, di farci venire i turisti usando tutti gli stratagemmi possibili. Ci sono dei paesi che vivono di turismo: Orgosolo, San Sperate, per esempio. Che cosa ci vadano a fare i turisti lì non l’ho capito ma una cosa è certa: a loro piace il vecchio e il rovinato e a noi è proprio quello che non manca. Per farla breve, siamo una ventina di amici e parenti, la mattina ci vestiamo da sardi, con costumi che i nostri nonni portavano ancora fino a pochi anni fa: gonne, corpetti, barrita, spaccatroddiu, cambali e ci rechiamo tutti i santi giorni al bivio della strada statale proprio sotto il cartello che indica il paese. Quando passano le macchine ci mettiamo all’inizio della curva lungo la striscia bianca che delimita la strada e facciamo un ballo sardo accompagnati dal sonettu di Antonio Licheri. Quando e se gli automobilisti si fermano gli offriamo della vernaccia e li invitiamo a passare in paese. Alcuni decidono che forse vale la pena di farci un giro e di spendere qualche soldino, molti filano dritto. Abbiamo uno slogan che abbiamo riprodotto in un cartello enorme all'ingresso del paese: "Beni a bidda e portanci sa pobidda" (vieni in paese e portaci la moglie). L'anno scorso è andata bene, nel senso che non ci abbiamo tutto sommato rimesso ma se non ci facciamo venire qualche altra idea siamo finiti... C’è da dire che quelli del paese prima ci hanno copiato l'idea e che pure loro si appostano al loro bivio rubandoci i turisti. Credo comunque che lungo quella statale molti paesi manderanno le proprie delegazioni folkloristiche e che quando questo succederà per noi sarà proprio la fine. Questa è la causa per cui mi sono battuto questi ultimi anni e per cui quest’estate ancora mi batterò.

venerdì 15 maggio 2009

La camera


Di notte la camera diventa l’antro degli orrori. Le due masse oscure ora distese l’una accanto all’altra sono squarciate dalla lama di luce che penetra da una serranda difettosa insieme a un silenzio che poche ore fa era un rassicurante fragore cittadino. La stanza è pregna di un odore ripugnante, quello del venerdì, quando fanno strage di pesci. Dormono, dormono e sognano come dormono e sognano i mostri appagati. Grugniscono, gemono, sibilano, soffiano, soffocano, si voltano e riprendono a grugnire.
Nella sua boccia, immobile, terrorizzato, il pesciolino rosso fissa le due forme indistinte temendone l’improvviso risveglio. Ma teme ancora di più, vigili sui comodini acagiù, ai lati del letto, immersi nell’acqua dei bicchieri, atroci come vaghe promesse di morte, i loro sorrisi assassini.

mercoledì 6 maggio 2009

Conversazione...

tra due mosconi contro il vetro della mia cucina.

- Che hanno a pranzo, pizza o manzo?

- Manzo...

- Ganzo!

mercoledì 22 aprile 2009

Da dove vengono le vostre zanzare?


Si dice che le zanzare facciano dei chilometri per un po’ di sangue. E’ vero. Per esempio quelle due che mi ronzano attorno ogni notte vengono dalla provincia di Nuoro. Da dove esattamente non saprei dirlo perché essendo oristanese non distinguo chiaramente la loro parlata. L’ultima conversazione che mi hanno costretto ad ascoltare mentre mi stavo addormentando più o meno è stata questa:
Prima zanzara: “Sa muzzere de su puzzone este asua un anzone de Zinnigas” (la moglie dell’uccello è su un agnello di Zinnigas)
Seconda zanzara: “Su fidzu de sa tzia de Sitzia este in mesu de sa midza” (il figlio della zia di Sitzia è nella calza)
Prima zanzara: “Issu este unu cozzone satzagone” (è ingordo)
Seconda zanzara: “Su manzano si satzada de fodzas de Atzara” (la mattina si riempie di foglie di Atzara)
Poi, prima di pungermi, la prima zanzara ha pronunciato queste testuali parole che non dimenticherò mai: “Tocca a Tzilleri!” (entriamo nel bar!)

martedì 14 aprile 2009

Rien de rien

Si chiamava Jeannot, come Jeannot Lapin, il coniglio delle fiabe di cui non sapevo proprio nulla ma con cui il mio di Jeannot non aveva sicuramente niente a che fare. Era un pazzo, secondo la terminologia del tempo, non da manicomio ma di quelli innocui che si lasciavano gironzolare liberamente per le strade. Si fermava sotto le finestre alle quali erano affacciate donne sorridenti, ma spesso affiancate da mariti, padri o fratelli ilari, e cantava con naturalezza una canzone di Edith Piaf o di Tino Rossi.

“Non, rien de rien
non, je ne regrette rien…”

La sua voce rauca e potente rotolava le erre della lingua francese come i torrenti trascinano i sassi nei loro ruvidi letti. Vibravano i cuori mentre lui ricominciava con Milord, La Boudeuse o qualche canzone romantica d'altri tempi. Qualche volta, da dietro una persiana, una voce femminile lo accompagnava, sulle prime un po’ timida, poi sempre più convinta e gioiosa. Cantavano la vita, l’amore, la malinconia, la sofferenza e la morte, a lungo, come i violini che ridono, sospirano e piangono solitari nei nostri cuori. E strappava l’applauso Jeannot, sempre. Poi faceva un inchino per ringraziare e per raccogliere le monetine che ben volentieri gli lanciavano. Allora lo raggiungevo in mezzo alla via e lo aiutavo a recuperare le monete che rimbalzavano fin sotto le macchine o si nascondevano tra due lastre della strada. Poi lo vedevo allontanarsi, sparire alla prima curva e lo sentivo riproporre poco più in là, sotto qualche finestra e gli occhi incantati di altre signore e signorine, le sue appassionate serenate. Ma sempre s’avvicinavano i mariti, i padri e i fratelli con dei sorrisi che non conoscevano la pietà.

lunedì 30 marzo 2009

Passa al lato oscuro! - quinto libro

Vi stavo parlando del mio matrimonio e che venne un vampiro, e che ci aveva ucciso ma siamo resuscitati perche eravamo immortali.
Ma quando eravamo resuscitati ma lui non c ‘ era il mio amore dalla mia vita.
Be io pensai “ dove potrebbe essere Eduard” , o capito subito che Eduard non sene era andato stava combattendo con altri vampiri , e però pensai” dove è “ mi sono data la risposta alla domanda l ‘ avevo capito dov’era , era alla scuola di ballo dov’ era morto il vampiro pensai anche che… ( questo pezzo continua nel 6 libro di passa al lato oscuro)
Come vi dicevo perche Eduard non mi legge nella mia mente? Ve lo dico, però vi devo dire che ero passata al lato oscuro, ve lo dico perche io sono figlia di… io sono figlia di vampiri.
Ma perche i miei genitori non mi anno morso ve lo dico, in passato i miei genitori erano vampiri ma non lo sono più e non si ricordano niente e questa tutta la verità ( questo pezzo continua nel 6 libro di passa al lato oscuro)
Be adesso che sapete tutta la verità vi devo dire fine.
Ma continuammo a parlare della mia storia, e che sono passato alla strada…
Nel primo libro c’è scritto nel ritornello, passera sulla strada giusta o sbagliata ?
Ve lo dico sono passata sulla strada giusta
Vi chiederete perché
Be sono felice di essere un vampiro… (questo pezzo continua nel 6 libro di passa al ,lato oscuro)
Be vi devo dire fine del quinto libro leggete pure il 5 continua la mia storia, be non l avrete letta tutta ma vi o detto la verità.
Leggete anche il 6 libro con altre avventure.

domenica 29 marzo 2009

Passa al lato oscuro! - quarto libro

Dunque stavo parlando del ballo di fine anno e che ci eravamo baciati era un ‘ espressione strana ma alla fine mi a morso be almeno posso restare con lui una vita felice per sempre ma ci sono altri mostri in giro che dovremo combattere. Andammo al nostro matrimonio e sentimmo un trombo , era un vampiro ci stavamo per baciare, e veni un altro vampiro che non dava pace a nessuno e voleva me. Ma non si accorse che ero un vampiro come lui be allora dovevamo combattere, no, per difenderci abbiamo combattuto ma piangevo era morto l ‘ amore della mia vita Eduard allora o continuato a combattere ma non ce lo fatta a ucciso pure me ma successe una cosa strana ci siamo visti in paradiso pero mi ero chiesta che”noi siamo immortali e quando melo ero detto siamo resuscitati e ce ne siamo scappati dal matrimonio ma Eduard li aveva letto nella mente e a detto che pensava” non di distruggermi ma era innamorato di me” e voleva uccidere Eduard non me, in quel momento pensai “perche sono tutti innamorati di me.(questo pezzo continua nel 5 libro di passa al lato oscuro)
Comunque pero ci dovrei credere che è… o non ci devo credere che è… pero 1 mi sembrava strano 2 ero completamente innamorato di lui il vampiro(questo pezzo continua nel 5 libro di passa al lato oscuro)
Ma io mi chiedo perche sono parzialmente innamorata di lui.
E da quando che lo conosciuto che lo amo perche lo amo?
Ogni volta mi a vicino alla morte facendo faccia a faccia con la morte, anche se lo battuta la morte, come fa un vampiro a non leggermi nella mente in passato mi a detto” che riusciva a leggere in tutte le menti dei esseri umani tranne nella mia , da umana non riesce a leggermi neanche da vampiro come lui, in senso ora che sono un vampiro come lui sono la sua stessa specie , mi a dato i suoi geniti e faccio parte della sua famiglia la sua stessa mente il suo stesso cuore la sua stessa specie come è possibile che legga nella mente dei altri e non me cioè stessi geniti cioè stesso cuore stessa mente stessa famiglia e lo legge a loro e non a me adesso che sono uguale alla sue famiglia e non mi legge perche non mi legge nella mente?
(Lo scoprirete nel 5 libro di passa al lato oscuro)
Spero che anche questo libro vi sia piaciuto grazie per averlo letto vi prometto che farò anche il 5 libro ma potete leggere prima o dopo i racconti di mio padre le storie di tontontolino.
Grazie per averlo letto spero che vi piaccia anche il 5 che farò stasera ma potete leggere come vi o detto prima o dopo le mie storie o le storie di tontontolino
Spero che vi piaccia il 5 che farò stasera .