sabato 7 maggio 2011

Pescivendole

“O ‘jente chi vole pesciiii? Ma chi mazzardi!”
Quando sentiva quel grido, Sassegnu, il mio gatto tigrato, mi guardava con aria di supplica, poi si strofinava contro la mia gamba e cominciava a miagolare ininterrottamente. Tanto faceva che dovevo aprirgli la porta.
“E teniteli sti gatti!” Era una delle due pescivendole vestite di nero che aveva appena posato l’enorme cesta rotonda piena di pesci che portava in equilibrio sulla testa e la faceva sembrare a un piccolo messicano sotto il suo sombrero. Le due ceste di vimini erano disposte su un muretto ai lati della fontana dove la seconda pescivendola si lavava le mani e risciacquava due coltellacci che immaginavo già affilati ma che continuava ad affilare ulteriormente sfregando le due lame l’una contro l’altra. L’esercito di gatti che circondavano la pescheria ambulante non considerava questa operazione come una minaccia, anche perché le due signore sorridevano e non sembravano affatto dispiaciute della loro presenza. Forse i gatti erano un po’ troppi, ecco tutto. Trenta, forse quaranta, alcuni del vicinato, altri provenienti da quartieri più lontani, tutti richiamati dalla scia di odore che il pesce inevitabilmente lascia al suo passaggio. Ai posti d’onore, i più grossi, tra cui Sassegnu, uno dei più temuti e rispettati a causa del suo aspetto da filibustiere, dietro, dei gatti dall’aspetto meno minaccioso, che probabilmente passavano la vita sopra le ginocchia dei loro padroni, e dietro ancora, i più timorosi, alcuni solo intenti a giocare tra di loro. Le donne del vicinato circondavano a loro volta le ceste, disperdendo per un attimo i felini, e cominciavano a chiedere il prezzo del mazzardo, o del polpo, oppure della zuppa di pesci. Fingevano di trovare tutto caro ma alla fine compravano sempre, anche perché cosa vuoi che facciano il venerdì se non i pesci? E poi c’erano quei pesci di scoglio, ottimi per la zuppa di pesce, che non costavano niente. Le pescivendole parlavano a voce alta, un po’ per rispondere alle domande delle loro clienti, un po’ per farsi sentire dalle donne distratte o da chi preferiva rimanersene dietro le gelosie. Mentre parlavano mettevano sul piatto di una vecchia stadera tre o quattro pesci per volta, facevano scivolare il peso sull’asta, attendevano un attimo che la bilancia fosse in equilibrio e dichiaravano: “Buon peso!”. Poi prendevano alcuni mazzardi per la coda, li poggiavano su un foglio di giornale bello aperto e gli facevano il trattamento completo: con lo stesso coltello gli toglievano le squame da una parte e dall’altra, lo sventravano, lo risciacquavano sotto la fontana , lo incartavano e consegnavano il tutto alle clienti che si facevano un piacere di pagare con un biglietto che ancora non aveva odore. Poi prendevano il foglio di giornale pieno di squame e di viscere e lo offrivano ai gatti che aspettavano frementi. Era il momento preferito del mio Sassegnu il quale dimostrava ulteriormente che i gradi se li era meritati. In un attimo spariva tutto. Le pescivendole dovevano solo allontanare qualche gatto che ancora leccava il foglio, appallottolare quello che ne restava e buttarlo nel secchio dei rifiuti più vicino. Si lavavano le mani, risciacquavano i coltelli e la stadera, che disponevano nella cesta , poi si rimettevano la cesta in testa e partivano per fare tappa alla prossima fontana a trenta, quaranta metri più lontano.
“O ‘jente chi vole pesciiii? Ma chi mazzardi!”
I gatti, questa volta erano proprio quaranta, forse cinquanta. Si dice che quando facevano rientro al porto i gatti fossero almeno cento e che una cosa era certa: lì di topi non ce n’erano.

giovedì 5 maggio 2011

Nido di rondine


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Murato è un piccolo paese dell'Alto nebbio dove regna la pietra grigia, che costituisce la materia prima della casa còrsa e si rivela nei muri scrostasti dal tempo, nei balconi e sui tetti ricoperti di grosse lastre d’ardesia, nel passamano e nei gradini delle scale esterne che portano al primo piano delle abitazioni tradizionali.

Ghjisè Raffalli, che da trent’anni aveva lasciato Murato per la città di Bastia, aveva deciso di trascorrere gli anni che gli rimanevano da vivere, e di morire, nel paese che gli aveva dato i natali, regalato un’infanzia felice e presentato il primo amore. Così se n’era tornato nella casa dei suoi, ormai abbandonata, ma che con poca spesa era riuscito a rendere di nuovo abitabile. Gli avevano offerto di eseguire i lavori gratuitamente, a titolo di vaga parentela e di amicizia, a nome di un passato che riemergeva a ogni parola pronunciata, a ogni inflessione della voce, a ogni sguardo, a ogni gesto. Ma Ghjisè era orgoglioso e testardo e preferiva non dover niente a nessuno per non essere un giorno rimproverato di non avere pagato i suoi debiti. Era vedovo e non aveva lasciato eredi, o forse sì, ma indirettamente, perché suo fratello maggiore, ormai defunto, aveva famiglia in continente.

Aveva settant'anni, e tutto sommato li portava bene, ma era stanco e malinconico. Lui diceva di essere ammalato, forse più per essere compatito nella solitudine nella quale versava da troppo tempo, che per vera convinzione di esserlo. Aveva sentito parlare di una guaritrice, una certa Giuditta Poggioli, quarant’anni o poco più, vedova, che a quanto pareva veniva da Rutali, il paese vicino, dove i suoi amuleti avevano dato sollievo a molti ammalati. Non che Ghjisè credesse fermamente che gli esseri umani fossero in grado di operare delle miracolose guarigioni, il fatto è che in cuor suo voleva crederci, come aveva sempre voluto credere nei poteri dei mazzeri e dei murtulaghji.

Era una domenica mattina del mese di aprile. Ghjisè si era rasato, aveva pettinato i suoi radi capelli bianchi e messo i vestiti migliori. Tutto sommato, era ancora un bell’uomo, Ghjisè. Sapeva che la guaritrice non riceveva la domenica ma volle lo stesso presentarsi a casa sua eventualmente facesse un’eccezione. Si avviò sulle lastre grigie delle vie del paese. In pochi minuti, giunse davanti all’abitazione della signora Poggioli. La vide seduta sull’ultimo gradino della scala esterna. Aveva qualcosa di triste, infelice, negli occhi. Guardava lontano, come in attesa di qualcuno, forse di quel qualcuno che ora era proprio sotto di lei e di cui non si era ancora accorta. Aveva una lunga gonna nera, e nient’altro sotto la gonna. Le gambe erano aperte, come per prendere il fresco, e lasciavano vedere quel che a Ghjisè sembrò un nido di rondine, di quei nidi che stanno sotto gli spioventi dei tetti o sotto i balconi. Ghjisè non disse nulla, non si schiarì neppure la voce. Rimase semplicemente lì, interdetto, a guardare. Lei mise parecchio tempo prima di avvertire la sua presenza. Quando abbassò lo sguardo verso di lui, il suo volto arrossì improvvisamente.

Quella domenica fece un’eccezione.