Capitolo I
A Bingias de Maria, Oreste Marroccu era l’unico in grado di sollevare il banco di un bar con la sola forza delle braccia. Lo aveva fatto ben tre volte nella sua vita: la prima volta a Orune, poi a Pedras de Fogu e a Tertenia. Ma i bar non gli conveniva tanto maltrattarli perché, come i suoi coetanei, vi passava i pomeriggi e spesso le notti, vicino alle casse di bottiglie di birra che in ottima compagnia svuotava. Non facevano niente di particolare nei tzilleri: la solita morra, le solite bevute, le solite risse seguite dalle solite riconciliazioni e la solita pisciata sotto le stelle. Dopo cena, sempre che si ricordassero di cenare, si disponevano in cerchio e, bicchiere in mano, cantavano il loro repertorio che invariabilmente cominciava con “Sa crapola” e sprofondava nei canti a tenores.
Oreste era nato a Bingias de Maria ma dalla faccia sembrava uno di Baunei dove era conosciutissimo. Aveva costantemente una barba di tre giorni, non di quelle finte che si vedono in città ma una vera, ispida, nera con la quale, volendo, avrebbe potuto grattugiare un’intera forma di pecorino sardo stagionato. Eppure il cinghiale toccò il cuore di Carmelina Frongia, così magra e bassa di statura che faceva piuttosto pensare a una zanzara. Carmelina, una donnina di 25 anni amava starsene seduta sul suo scannu a fare dell’uncinetto o a guardare la televisione. Paradosso della vita, lui grande, grosso e brutto si faceva comandare dalla zanzara ma solo in privato perché se avesse osato farlo in pubblico Oreste l’avrebbe attaccata al muro con una bussinata, l’avrebbe. Ma Carmelina Frongia era una donna che non aveva paura di nulla, tranne che dei pistilloni. Quando quella lucertola bianca schifosa le entrava in casa lanciava delle urla che la sentivano dal sattu di Pedringianu Cossu.
Capitolo II
Erano le quattro del mattino, ora vecchia. Oreste Marroccu, ”imbriagu ke sa suppa”, aveva appena salutato gli amici. Uscendo dal bar svoltò subito due volte a destra e si trovò nella viuzza delimitata a destra dal muro a secco dell’orto di Bobore Castangia. Era un muro abbastanza basso anche se costruito in paese. Chi passava da quelle parti poteva tranquillamente vedere cosa aveva piantato Castangia e cosa aveva dato da mangiare al suo mulo. Non si trattava di quei muli figli dell’asinello sardo e della cavalla ma di un asino grosso continentale. Era un mulo martinese, lo stesso che un tempo serviva nell’esercito italiano. Castangia a quanto pare vi era molto affezionato tanto da dargli un nome da cristiano. Costantino era solito guardare la gente che passava nella via e sporgere la testa per farsi accarezzare. Marroccu, che contro quel muro per consolidata abitudine stava svuotando la vescica, lasciò avvicinare Costantino che aveva la sua consueta espressione tranquilla per quanto si potesse giudicare alle quattro del mattino sotto uno spicchio di luna estiva. Lo accarezzò come faceva d’altronde tutte le notti uscendo dal tzilleri. Costantino gradiva le carezze dell’uomo ma quella notte, chissà che cosa gli era passato per la testa, morse Marroccu tra collo e spalla. Se non gli avesse dato uno dei suoi più poderosi cazzotti stendendolo all’istante l’animale gli avrebbe sicuramente strappato via un pezzo di carne. Furono le imprecazioni di Marroccu a svegliare Bobore Castangia che dormiva, pacifico, sognando di guidare i muli dell’esercito italiano su per le Alpi contro il nemico austriaco come ai bei tempi della Brigata Sassari.
Capitolo III
Bobore Castangia dalla finestra gridò: “’stizia ti sequestri!” e in un attimo si trovò vicino al mulo. “Costantino! Costantino!” Poi squadrando Marroccu: “Cos’hai fatto al mio Costantino? L’hai ucciso! L’hai ucciso!”
“Non è morto!” rispose Oreste Marroccu dolorante.
“La giustizia ti sequestri!”
E allora Oreste Marroccu non si poté più dominare. Afferrò Bobore Castangia per le ascelle sollevandolo da terra, se l’aggiustò e lo morse nell’esatto punto in cui egli stesso era stato morso dal mulo.
Le forze dell’ordine non tardarono ad arrivare sul luogo con ben tre volanti. Volarono colpi, insulti, minacce, ma alla fine Oreste Marroccu fu sopraffatto, ammanettato, catturato, trascinato in caserma. Davanti alla caserma viveva un certo Minigheddu che non dormiva mai. Anche alle quattro del mattino non disperava di vedere qualcosa d’interessante sotto la minigonna di una di quelle giovanotte che studiano a Cagliari e tornano in paese a trascorrere le vacanze. Prendeva il suo scannu e andava a sedersi davanti all’uscio come usano fare i vecchi dei nostri paesi. Bingias era un paese calmo nel quale non succedeva mai niente ma quella mattina, vedendo Marroccu in manette e scortato dai carabinieri, Minigheddu non poteva neanche più dire questo. Gli chiese: “E tu che ci fai qui?” Marroccu rispose: “E che ne so, io! Qui si sono messi ad arrestare…” In effetti, di che cosa si poteva accusare Marroccu? Di maltrattamento di animali? E’ vero, aveva maltrattato il mulo ma a detta di uno dei carabinieri si è ripreso quasi subito e ora per lui quel cazzotto è un semplice ricordo. E poi Marroccu si era solo difeso. Rimaneva la possibile accusa di avere morso Bobore Castangia. Qui rischiava qualche giorno di carcere, non di più. Questo sperava. Ma il fato ne decise altrimenti.
Capitolo IV
Carmelina Frongia dormiva beata tra le lenzuola di lino ricevute in regalo dalla suocera, Speranza Cuccu. Quelle lenzuola erano un po’ ruvide, come tutte le lenzuola di lino, il che spiega perché passano così facilmente da suocera a nuora. A dire il vero, un po’ tutto il vicinato e il parentado le aveva regalato un paio di lenzuola di lino. Ora che ne aveva l’armadio pieno progettava di rifilarle a sua volta a qualche sposina innocente. Ogni volta che Carmelina si muoveva nel letto ne sentiva la durezza, che si traduceva in uno sgradevole rumore di tovaglia plastificata che avrebbe svegliato il marito se si fosse trovato al suo fianco. Aprì gli occhi. Nel buio allungò il braccio e constatando che ancora non era rientrato dalla sua imbriaghera notturna pensò che questa era la volta buona che se lo ritrovava tutto cagato e pisciato. Non gli era ancora successo finora ma era molto probabile che la cosa accadesse entro breve. Ultimamente, appena rientrato correva in bagno e vomitava tutto quello che aveva in corpo poi si sedeva sul water e vi spruzzava violentemente il resto. Quando aveva finito, il bagno sembrava quello della stazione di Mandas. Ogni mattina Carmelina doveva bisticciare col marito per come lo aveva conciato. “Ma hai bisogno di sporcare dappertutto? Guarda qui cos’hai combinato! Non si può neanche camminare qua dentro!” Accese la luce, diede una rapida occhiata ai muri eventualmente ci fosse un pistillone, guardò l’orologio a muro: le cinque passate. “Che si sia cagato per strada e non ha il coraggio di venire a casa?” Carmelina s’infilò la lunga gonna, la camicia, le scarpe, prese del cambio per il marito e uscì.
Capitolo V
La luna fumava il suo sigaro mentre le cicale, disposte in cerchio, cantavano l’inizio dell’estate. Carmelina sulle sue scarpe con la suola di gomma passò davanti alla casa di Antioco Puddu che russava forte. Un po’ ne invidiava la moglie che non era costretta ad alzarsi alle cinque del mattino in cerca di un marito cagato. All’improvviso fu assordata a due passi dal canto di un gallo che irrispettoso del sonno dell’onesta gente e indifferente ai passanti le urlò nelle orecchie che era ora di alzarsi. Carmelina allungò il braccio e lo afferrò per il collo facendolo zittire con una eloquente pressione. Il gallo moggi moggi si ritirò nel pollaio dove tentò un ridicolo canto stonato poi s’ammutolì. Eccola arrivata al bar frequentato dal marito. Era chiuso. Qua e là sul marciapiede qualche chiazza di vomito testimoniava che anche quella notte Oreste aveva festeggiato con gli amici. Decise allora di cercarlo nelle viuzze intorno al bar a cominciare da quella immediatamente a destra. Albeggiava. Camminando in punta di piedi poteva vedere il mulo dietro il muro a secco e il rigagnolo di piscio lasciato dal marito. Cento metri oltre, dopo l’abitazione di Castangia, si trovò in aperta campagna. Chiamò: “Oreste!” Nessuna risposta. Tornando indietro notò dalla luce accesa che Castangia era sveglio. L’ex alpino parlava a voce alta, probabilmente da solo, dato che non era sposato e viveva come un eremita. “La giustizia lo fucili. Io a quello lo faccio arrestare, lo faccio!” Carmelina cominciò a preoccuparsi. Che quelle parole si riferissero al marito? Ogni secondo che passava questa ipotesi diventava certezza. Così le sue suole di gomma la condussero davanti alla caserma dei carabinieri e sotto lo sguardo di Minigheddu rattristato dal desolante spettacolo della sua lunga gonna.
Capitolo VI
La strada che conduce a Bingias de Maria è una provinciale piena di buchi. E’ a valle un lungo rettilineo che attraversa campi monotoni per diventare all’ingresso del paese un bel viale alberato se vogliamo considerare i fichi d’india degli alberi. A sinistra, un calvario delimita l’abitato. A destra un cartello che qualche buontempone armato di fucile ha trasformato in colabrodo ma che nonostante questo rimane ancora leggibile. C’è scritto: BENVENUTI A BINGIAS DE MARIA. L’avvocato Murtas conosce bene questo cartello, visto che egli stesso è di Morrogas che dista a un lancio di Pattada da Bingias. Lo stesso cartello di Morrogas si trova nelle medesime condizioni e forse tutti i cartelli di benvenuto della Sardegna centrale sono così. L’importante è che si possano leggere.
Arrivato nella piazza del paese l’avvocato parcheggiò la sua Punto di fronte al comando dei carabinieri. Scendendo di macchina si lisciò i baffetti grigi, salutò diverse persone, tra cui Minigheddu, i compagni di imbriaghera e la moglie di Oreste Marroccu. “Di che cosa è stato accusato Oreste?” chiese quest’ultima. “Ancora non lo so”, rispose l’avvocato. “Devo ancora leggere i capi d’accusa. Le farò sapere dopo l’incontro con suo marito. Stia tranquilla signora, suo marito è una brava persona. Sono sicuro che si tratta di un’accusa inconsistente.” La signora Marroccu si voltò verso i compagni di Oreste con un espressione che voleva significare “Che vi avevo detto io? Siamo in ottime mani!” “Avvocato”, disse Beppe Murgia, amico di famiglia di Oreste, “prima di andare a parlare con Oreste se la fa una birretta con noi?” L’avvocato sembrò pensarci un attimo poi disse: “Perché no? Una sola però!”
Capitolo VII
Alle quattro del mattino del giorno dopo l’avvocato Murgia si ritrovò davanti il muro a secco di Bobore castangia a pisciare l’anima e accarezzare il muso del mulo Costantino.
“Che si fa ora?” chiese Beppe Murgia ai compagni dietro un pancione di cui ti accorgevi solo se lo vedevi di profilo.
“Ci cantiamo una crapola”, rispose Nanni Fois schiarendosi rumorosamente la gola. “Che altro vorresti fare?”
“Non intendevo questo”, disse Murgia. “Che facciamo ora che Costantino ha morso anche l’avvocato Muscas? Cerchiamo un altro avvocato o ci fidiamo dell’avvocato d’ufficio?”
“Ma è così mal ridotto l’avvocato Muscas?”
“Purtroppo è stato morso gravemente e non credo che si riprenderà così presto.”
“ Chi è l’avvocato d’ufficio?”
“Cancedda.”
“ Cancedda? Ma se non sa neanche dove è piantato!”
“Mi hanno parlato di uno che fa politica. E’ un sardista che sa il fatto suo. Vi ricordate il processo Marongiu, quello che ha dichiarato l’indipendenza della Tavolara? Lo ha difeso lui.”
“Sì, ma Oreste è accusato di tentato omicidio mica di secessione.”
“E allora? Se uno è bravo è bravo anche se fa politica!” Poi, rivolgendosi al barista: “Stappaci altre tre birre, Bachisio!”
Capitolo VIII
“Non mi dica che è a dieta, avvocato!”
“Per carica!”, protestò l’avvocato Piredda che si lasciò servire un terzo piatto abbondante di Kulurgionis. “E poi”, continuò, “sua moglie cucina così bene che sarebbe un delitto!”
A casa di Beppe Murgia era festa grande. Un grande avvocato, che dico grande, il più grande degli avvocati sardi era ospite a casa sua! Quando si dice che a Bingias si è ospitali vuol dire che si è ospitali e Murgia lo voleva pienamente dimostrare. Mica aveva l’intenzione di fare la brutta figura di certa gente che dopo tre giorni gli ospiti se n’erano andati per disperazione… Aveva destinato all’avvocato una camera spaziosa con un armadio enorme e aveva messo il bagno grande a sua intera disposizione mentre lui e sua moglie avrebbero usato quello di servizio.
“Ancora due kulurgionis, avvocato? Non vorrà mica offenderci?”
L’avvocato fece questo sacrificio. Beppe Murgia era uno che quando si tratta di roba da mangiare non voleva correre troppi rischi. Aveva diciamo fatto i conti un po’ all’ingrosso. Si era detto: “Io da solo me ne mangio un chilo. Siamo in tre: tre chili. Per essere sicuri facciamo cinque chili di kulurgionis." Il pranzo, abbondantemente irrorato di cannonau, fu per l’avvocato l’occasione di parlare di politica e, perché no, di sognare un po’. Al quarto bicchiere, già immaginava le truppe sarde che sfilavano per le vie della Capitale sarda al ritmo del passu torrau: sinistro – destro – destro – sinistro – inchino e ancora sinistro – destro – destro – sinistro – inchino. Nelle orecchie un fracasso di sonettus, triunfas, launeddas e cantos a tenores; davanti agli occhi un’enorme bandiera con i quattro mori.
Capitolo IX
“Questa Repubblica ha bisogno di una Costituzione!” affermò improvvisamente l'avvocato, lo sguardo piantato nel futuro.
“Ma non c’è già la Carta Delogu?” ribatté Beppe Murgia che di politica non ne azzeccava mai una. “La Carta Delogu appartiene al passato. Noi Sardi abbiamo bisogno di una costituzione moderna, adatta ai nostri tempi.” Spiegò l’avvocato.
“Caterina!” urlò Murgia alla moglie che era andata un attimo in cucina. “Porta il maialetto! E stappa due bottiglie del vino di Gavino Caboni, quelle senza l’eticchetta!” Lanciando un’occhiata all’avvocato Piredda aggiunse: “E’ un vino speciale, mi creda…” senza accorgersi che l’avvocato era diventato verde.
“Non ce la faccio più…” ebbe la forza di mormorare quest'ultimo.
“Avvocato, lei mangia come un uccellino!”, disse Murgia servendogli un’abbondante porzione di carne.
L’avvocato, tutto sudato, tremante, ammutolito, ci mise quasi un’ora prima di arrivarne a capo e quando credete di avere messo termine alla sua tortura, Murgia lo servì di nuovo con una porzione esagerata. Mentre l’avvocato cadeva a terra Murgia stava raccontando la storia di una ragazza anoressica morta di fame sotto gli occhi della madre in lacrime.
Alle quattro del pomeriggio la sirena di un’ambulanza turbò la quiete pomeridiana della tranquilla Bingias de Maria portandosi via il più grande degli avvocati che la Sardegna avesse mai avuto.
Fu destino che toccasse a Cancedda difendere Marroccu.
Capitolo X
Rassegnarsi a prendere Cancedda, che non aveva mai vinto un processo, era come perdere in anticipo. La diffusa opinione che quest’uomo magro e imberbe, sempre vestito bene e con la borsa di pelle appresso, fosse un antipatico non era nata così dal nulla. Già alle elementari era uno con la puzza sotto il naso. Mai avrebbe parlato una lingua così “barbara” come il sardo e mai avrebbe giocato alla morra, a "zacca e poni" o a “prontus is cuaddus prontus”. Ricordava Oreste Marroccu, durante la ricreazione, che fungeva da cuscino addossato al muro che delimitava il cortile della scuola, alcuni dei suoi compagni curvi davanti a lui a fare i cavalli e gli altri che saltavano sulle loro solide schiene! Il gioco terminava quando uno solo dei saltatori avesse toccato terra con qualsiasi parte del corpo. Ma poi le squadre s’invertivano e si ricominciava. Una volta, a corto di partecipanti, lo invitarono, lo supplicarono di saltare. Fu in quell’occasione che usò il termine di “ineducati”. “Maleducati”, avrebbero capito ma “ineducati” scatenò l’ilarità generale e l’unanime disprezzo. A complicare il tutto fu il suo comportamento scolastico, spesso fatto di delazioni con nomi scritti alla lavagna quando gli insegnanti l’incaricavano di sorvegliare la classe, ma anche e soprattutto il suo ottimo rendimento specialmente in Italiano. Divenne col tempo un buon oratore ma con un accento strano, preso chissà dove, qualcosa a metà strada tra il toscano e qualcos’altro di poco definito: mai un errore di doppie, mai una confusione tra vocali chiuse e aperte. Si ascoltava parlare Cancedda, si deliziava nella pronuncia corretta dei vocaboli scegliendo quelli più rari e difficili. Parlava gli occhi chiusi Cancedda. Ascoltare Cancedda era come assistere a un concerto dodecafonico di Schoenberg.
Capitolo XI
Cancedda faceva Camillo di nome ma preferiva farsi chiamare col solo cognome anche perché in Sardegna, inesorabilmente, con l’età si acquisisce lo statuto di tziu e “tziu Camillu” o peggio ancora “tziu Mimillu Cancedda” suonava alle sue orecchie come una combinazione orrenda come sono orrendi "tziu Nannandu", “tziu Peppi” o “tzia Francisca” imposti dal furore dissacrante della gente a cui non è possibile opporsi. Quando invece i nomi rimangono tali e quali significa o che sono già brutti in partenza come “tzia Antioga” o “tzia Defenza” oppure, al contrario, magnifici come “tzia Regina”. In qualche caso questi genitori controllano se il nome non sia associato a qualche espressione volgare. Camillo è inoltre un nome che spesso a Bingias de Maria danno scherzosamente agli animali, agli asini in particolare, così, per tradizione. Evidentemente, i genitori di Cancedda erano troppo occupati a viaggiare per istruirsi sugli usi del proprio paesino.
Quando annunciarono a Marroccu l’arrivo di Camillo Cancedda, il suo avvocato difensore d’ufficio, l’uomo forzuto chiese al guardiano: “Camillo chi?” e scoppiò in una risata fragorosa.
"Il maresciallo Esposito, nel suo dettagliatissimo ed esauriente verbale, così descrive l'increscioso, il deplorevole accaduto: La notte del 3 giugno 1985, alle cinque del mattino…"
"Erano le quattro", corresse Marroccu.
"Si tratta dell'ora legale", ribatté l'avvocato che poi continuò: " La notte del 3 giugno 1985, giunti presso l’abitazione del signor Castangia Salvatore..."
"Mi fai un favore Cancedda? Durante il processo non aprire bocca..."
Capitolo XII
Quella domenica pomeriggio Bingias era deserta. Lo è di solito la domenica ma quella domenica lo era ancora di più. La casa di Bobore castangia era chiusa. Nel suo orto non c’era traccia di Costantino. Il signor Minigheddu, rintanato dentro casa, aveva rinunciato a spiare le ragazze che quella domenica proprio non passavano. Nel comando dei carabinieri più nessuno entrava o usciva da un bel pezzo. Persino il bar di Bachisio Carta era chiuso. La signora Carmelina Frongia, prima di uscire di casa, chiuse le finestre, controllò la bombola del gas, i rubinetti, le luci di tutte le stanze e lasciò nel cortiletto davanti casa una ciotola piena d’acqua e un’enorme porzione di malloreddus al sugo nel piatto del gatto Marceddì che avrebbe preferito i soliti muggini di Cabras. Chiudendo a chiave il cancello di ferro interrogò il cielo ma non seppe interpretarlo. Domani pioverà? L’uomo della sua vita avrebbe saputo, lui.
Dentro la Uno bianca Beppe Murgia e la moglie Caterina stavano bisticciando a proposito di una cassetta che quest’ultima si rifiutava di sentire. Si trattava di una cassetta del coro di Bitti che il marito metteva mattina e sera indifferente alle sue proteste. L’arrivo della signora Frongia li mise d’accordo. Aveva un’espressione seria che male si sarebbe conciliata con la musica. Murgia fermò il nastro, scese dall’auto e aiutò la moglie di Marroccu ad accomodarsi nel sedile posteriore. Alle cinque del pomeriggio di quella domenica, sempre ora vecchia, la macchina di Beppe Murgia partì alla volta di Lanusei.
Capitolo XIII
All’esterno del tribunale di Lanusei, sulle scalinate e il piazzale antistante, i cori procedevano indisturbati, le morre degeneravano in risse mentre nella hall era un armonia di canti con in sottofondo il vociare continuo di una moltitudine di avvocati, giudici, forze dell'ordine, testimoni, imputati e la massa di parenti, amici e semplici curiosi.
“Questo è un palazzo di giustizia, non un ovile!” urlò un usciere grasso che sembrava sull’orlo dell’infarto. I componenti del coro, che avevano appena attaccato "Addio Nugoro amada", sembravano non prestargli ascolto. Accorsero quattro agenti e i canti cessarono ma solo per ricominciare alcuni minuti dopo poco più lontano.
“Ma è possibile che non capiate la differenza tra un tribunale e un bar? Quelle bottiglie di birra, per favore! Ma fatemi il favore!”, si spolmonava l’usciere. Nuovo intervento delle forze dell’ordine e nuovo focolaio di canti sardi in un altro punto del tribunale. L’usciere rischiò seriamente di morire quando vide un bingese che pretendeva di entrare in aula con il suo cane, un pastore fonnese o qualcosa del genere.
“Ma stiamo scherzando? Lo sa lei che qui non entrano i cani?”
“Perché no? Entrano i muli e il mio cane non può entrare?” protestò l'uomo che dall'alito aveva sicuramente fatto una scorpacciata di ravanelli la vigilia.
“Quello è un teste importante! E ora vada via col suo cane!”
Il bingese mormorò qualcosa in fonnese al cane, come per tradurgli nella sua lingua quanto detto dall'usciere e convincerlo della necessità di aspettarlo fuori. Accompagnò il cane all'uscita e si ripresentò solo davanti all’ingresso dell’aula B.
“Ora posso entrare?”
Questa volta il grasso usciere non fece opposizione.
Capitolo XIV
Se c’è un luogo che ha dato origine al detto “centu concas centu barritas” questo è sicuramente l’aula B del tribunale di Lanusei. Quel lunedì erano almeno cento le barritas che, nonostante il caldo da morire, decoravano il capo dei Bingesi venuti appositamente per assistere al processo del loro compaesano Oreste Marroccu. La maggior parte portava la camicia bianca, i gambali e dei pantaloni di velluto. Per quanto riguarda le donne, in numero almeno uguale a quello degli uomini, indossavano copricapo, corpetto, gonna e grembiule gialli e viola melanzana e agitavano dei ventagli tutti uguali come se fossero stati comprati nello stesso negozio. In effetti era così.
Carmelina Frongia occupava il posto proprio dietro al marito. Il suo sorriso tradiva assieme fiducia ma anche incertezza perché con Cancedda non si sa mai. Vicino a lei, Beppe Murgia, la moglie, il barista Bachisio, i parenti e gli amici dell’imputato. Vicino a Oreste, l’avvocato Cancedda che prendeva degli appunti. Sul lato sinistro, i suoi accusatori: il PM Usai, Salvatore Castangia e Costantino, il mulo.
La corte entrò. Erano tre giudici talmente bassi che quando presero posto dietro le loro scrivania quasi non si vedevano.
“Silenzio!” urlò il giudice centrale battendo sulla scrivania col martello di legno.
“I barras t’arruinti!” rispose qualcuno dal fondo. Risata generale.
“Silenzio!” urlò di nuovo il giudice. Questa volta non ci furono repliche esilaranti.
“Procediamo! Di che cosa è accusato il qui presente Oreste Marroccu?”
Il P.M. Usai era un cabrarisso con una forte abbronzatura, più dovuta alla sua discendenza saracena che all’opera dell’astro solare.
“Tentativo di omicidio, signor Salvatore Castangia, vostro onore. Posso dare lettura del verbale dei carabinieri di Bingias de Maria?”
"Dia!"
Capitolo XV
"La notte del 3 giugno 1985, alle cinque del mattino, giunti presso l’abitazione del signor Castangia Salvatore, detto Bobore in località su furungoni di Bingias de Maria troviamo sul luogo il suddetto signor Castangia e il signor Oreste Marroccu ambedue doloranti alla spalla destra per ferita da morso di cui uno di mulo. Alla nostra venuta quest’ultimo cominciava ad andare in escandescenza, assumendo atteggiamento di sfida e insultando pesantemente in lingua sarda il Maresciallo Esposito.
Il maresciallo senza aderire alla provocazione chiedeva i documenti che l’uomo rifiutava di fornire.
Non potendo più la pattuglia soggiacere alla volgarità di quest’ultimo che solo successivamente verrà identificato, ed essendosi lo stesso rifiutato di fornire le generalità lo si invitava a salire nell’autovettura di servizio, per poi condurlo presso il Comando per l’identificazione.
L’uomo che rifiutava di essere portato al veicolo e fatto salire a bordo cominciava a colpire i militari con calci, pugni e spintoni. Quest’ultimi dapprima sopraffatti, essendo stati colti di sorpresa, riescono solo in un secondo tempo a fermare e a ammanettare l’aggressore. Il maresciallo Esposito, durante la colluttazione che era scaturita con quest’ultimo, subiva una testata al setto nasale con conseguente rottura dello stesso.
Stante la condotta tenuta di quest’ultimo si procedeva a dichiarare lo stesso in arresto ritenendolo responsabile del reato di resistenza."
Capitolo XVI
“Scusi ma che ci fa questo mulo qui?”
“Non saprei, vostro onore. Lo chieda alla difesa. Noi non abbiamo richiesto la presenza dell’animale”, rispose il PM Usai lanciando uno sguardo interrogativo al Castangia.
“Beh, a dire il vero neanche noi, vostro onore”, fece eco l’avvocato Cancedda guardando Oreste Marroccu come per chiedergli l’autorizzazione di parlare.
Il PM Usai rivolgendosi a voce bassa al suo assistito: “Signor Castangia, si può sapere perché ha portato il mulo?”
“Costantino è testimone!”
”Come potrebbe testimoniare un mulo? Ma non rendiamoci ridicoli!” Al giudice: “Vostro onore, si tratta di un errore del mio assistito. Ci scusiamo. Provvediamo subito a fare uscire il mulo.”
“E dove lo metto vostro onore? Non conosco nessuno a Lanusei!”, s’esclamò Castangia.
Il giudice scambiò alcune espressioni perplesse con i suoi colleghi, poi rivolgendosi all’assistenza:
“Qualcuno di voi si potrebbe occupare del mulo del signor Castangia?”
Ci fu un vociare diffuso, simile a quello delle aule scolastiche, ma nessuno si propose.
“Cominciamo bene!”, commentò il giudice. “Si faccia entrare l’usciere!”
L’usciere, che si stava immolando per impedire l’ingresso in aula a un pastore di Orune che pretendeva di assistere al processo con il suo gregge di pecore, si ricompose un’espressione consone al luogo e entrò seguito da alcuni ovini prontamente richiamati dal pastore stesso. Quando quest’ultimo vide riapparire l’usciere con il mulo s’esclamò: “E a me mi fa tutte queste storie per due pecore!”
“Procediamo”, disse il giudice visibilmente sollevato.
Proveniente dalla hall, un urlo disumano squarciò il relativo silenzio ritrovato dell’aula del tribunale.
Capitolo XVII
“Cos’è stato? Chi ha urlato?”, chiese pallido il giudice che sembrò improvvisamente rimpicciolito.
Il pastore di Orune si affacciò in aula. Tutti si voltarono.
“Quello è un mulo che morde! Il mulo ha morsicato l’usciere!”
Nel frattempo le sue pecore invadevano l’aula. Ce n’erano dappertutto. Il loro continuo belato costringeva il giudice a urlare per farsi sentire.
“Fate sgombrare l’aula! Fate sgombrare l’aula! No, la tonaca no! Portatemi via questa pecora!” Le forze dell’ordine, impegnate col pastore a fare uscire il grosso del gregge, ignoravano letteralmente il giudice il quale stava disperatamente tentando di allontanare una pecora particolarmente vorace che aveva preso un motivo floreale della sua tonaca per dei fiori veri. Le pecore erano quasi tutte uscite quando si sentì un cane abbaiare delle vocali gutturali nel duro dialetto fonnese. Non trovando via di fuga il gregge impaurito dallo zelo del pastore fonnese, si rifugiò nell’unico posto possibile: l’aula B da cui erano appena uscite.
“L’ho capita la storia, io! L’ho capita! Non c’è bisogno di farla tanto lunga e di sentire testimoni e scemenze varie!”, urlò il giudice nella confusione più totale. “Il signor Marroccu è stato morso dal mulo e non vedendoci più dal dolore se l’è presa col responsabile! Perciò mi pronuncio per il non luogo a procedere, il morso del signor Marroccu non essendo reato o tutt’al più autodifesa! Ora accompagnatemi a casa per favore! Non ci voglio stare neanche minuto di più in questo manicomio!”
“E cosa vi stavo dicendo io?”, disse Oreste Marroccu.
Fu immediatamente circondato da familiari e amici. Ci furono abbracci e baci, strette di mano.
“Ce la cantiamo una crapola?”, propose Nanni Fois.
Gli amici si strinsero in cerchio e intonarono la più sublime “crapola” che tribunale ricordi.
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