Avessi detto "moscone", avrei capito, ma non l'ho detto, e se l'ho detto non me lo ricordo.
mercoledì 8 luglio 2009
Sui passi di Edith Southwell
Il famoso pittore Guido Colucci si è recato ieri alla gendarmeria di Bastia per denunciare la scomparsa della moglie, la signora Southwell, etnologa e studiosa delle tradizioni popolari dell’isola di Corsica, avvistata l’ultima volta nel villaggio balagnino di Lumio venti giorni orsono. Da allora non si hanno più notizie di lei. Conosciamo la passione e l’entusiasmo della signora Colucci per la nostra isola che l’hanno condotta sino nei paesi più piccoli e lontani alla ricerca sul campo, come ama dire, della testimonianza diretta e genuina della popolazione locale. Di prossima pubblicazione, a quanto pare, una raccolta di poesie, proverbi, voceri e leggende frutto di anni di indagini e minuziosa trascrizione.
La signora Southwell è una donna a dire poco indipendente. Spesso accade che per condurre le sue indagini etnologiche manchi da casa per diversi giorni. Le sue assenze non si sono mai protratte tuttavia oltre venti giorni e questo tenendo conto degli spostamenti estremamente difficoltosi all’interno della Corsica. A quanto ci hanno riferito delle persone a loro vicine, i Colucci non hanno ragione alcuna di temere per la loro sicurezza, non avendo nessun nemico, né personale, né politico pur essendosi la coppia a più riprese dichiarata contraria all’annessione dell’isola all'Italia. L’ipotesi che lo stesso pittore e i gendarmi paventano è quella di un incidente durante uno di questi spostamenti che spesso, per la scarsità di mezzi pubblici di linea, avvengono su delle carrette rudimentali trainate da muli o asinelli. Tutto può succedere: un cedimento della strada o persino che la bestia s’imbizzarrisca e provochi la caduta dei suoi passeggeri da un ponte o nei purtroppo famosi burroni corsi.
Mentre organizza la sua partenza con le forze dell’ordine alla ricerca della moglie, chiedo al signor Colucci che cosa secondo lui abbia portato la signora ad avventurarsi in un paesino così sperduto come Lumio. Il signor Colucci è un uomo intorno alla quarantina, di media statura, curato nell’aspetto e nel modo di vestire, che una donna potrebbe definire molto piacente. Si mostra cortese e disponibile, nonostante la preoccupazione traspaia da ogni suo sguardo e da ogni suo gesto. Sua moglie, mi dice con un lieve accento napoletano, è stata chiamata un mese fa in Balagna per assistere alla veglia funebre di un vecchio pastore per la quale sarebbero state presenti delle prefiche che conoscono dei voceri antichi. Avrebbe, inoltre, approfittato dell’occasione per descrivere alcune chiese pisane lungo il percorso. Altro non sa.
Essendo questo un periodo morto per il nostro giornale ho ottenuto dalla redazione licenza di accompagnare i gendarmi e il signore Colucci e di riferire di ogni progresso dell’indagine. L’intera cittadinanza è in ansia per la sua beniamina e ha diritto di sapere che cosa possa esserle accaduto per quanto spiacevole.
Partiamo quindi abbastanza presto da Ville di Pietrabugno prendendo la decisione, mentre risaliamo la città di Bastia lungo i suoi boulevard, di raggiungere il paese di Lumio passando per il colle di Teghime ai piedi del Pigno poi giù per Barbaggio, Patrimonio, Saint-Florent e il temuto, almeno dal sottoscritto, deserto degli Agriates. E’ possibile passare per Ponte Leccia lungo il letto del Golo, oltrepassare Calvi e arrivare infine a Lumio. La prima rotta è stata preferita non soltanto perché più vicina alla destinazione ma anche e soprattutto perché si ritiene che la signora Southwell, che non fa mistero del suo amore per il Nebbio, potrebbe passare da lì per tornare a Bastia.
Sono nato e vissuto in quest’isola ma raramente mi sono avventurato oltre l’immediata periferia di Bastia. La nostra vettura è una trazione avanti nera che potrebbe portare sino a sei persone. Mi siedo dietro il comandante di brigata di gendarmeria, un omone corpulento e dotato di due magnifici baffi neri. Al posto del passeggero, il signore Colucci. Siamo preceduti da un’altra vettura occupata da quattro gendarmi in tenuta d’ordinanza. Fuori dai finestrini, la primavera.
Il panorama è di una varietà di colori a cui nessun pittore potrebbe rimanere indifferente e Il Colucci non sembra affatto insensibile alla maestosità del paesaggio che improvvisamente si apre sul lato sinistro. Il cordone lagunare di Biguglia trattiene uno stagno pescoso sulle cui acque si riflette un cielo che l’avvicinarsi dell’estate rende sempre più blu, a destra una catena di monti addossati l’uno sull’altro che, come dei ragazzacci di strada, sembrano giocare a ciccia. A Teghime la macchia mediterranea si è fatta più rada e bassa, lasciando qua e là emergere dei grossi blocchi rocciosi, autentici speroni sulla natura selvaggia. Ma non ci possiamo fermare, non con dei gendarmi in servizio.
La strada scende improvvisamente verso Barbaggio, un piccolo villaggio con due case e altrettante tombe di famiglia nei loro orti. Subito dopo Barbaggio, Patrimonio. All’ingresso del paese, proprio sotto il cartello di benvenuto, un’enorme botte di vino illustra al viandante le specialità del luogo e con una scritta invita all’assaggio. Questa volta ci fermiamo.
Un giovane pastore, con una lunga barba incolta e addosso il suo pilone di capra ci guarda con la stessa espressione incuriosita del suo grosso cane ma i gendarmi lo ignorano autorevolmente e entrano in una bottega da cui emana un forte odore di vino e di moscato. L’interno è come uno può immaginare: quattro botti di legno, delle damigiane e delle bottiglie vuote e piene sparse in ogni luogo.
“Cum’è u vinu quest’annu?”, chiede il comandante di brigata.
“E cume ha da esse? U vinu qui hé sempre più bonu!”, risponde ridendo il produttore. “Ajò chi ne bejimu un bicchjeru!” Ci porge dei bicchieri, ce li riempie di un buon vino rosso poi si serve a sua volta.
“A la salute!”
“A la salute!” rispondiamo tutti insieme. Uscendo la nostra inchiesta non è avanzata di un solo millimetro ma la vita ci sembra meno tragica.
La chiesa di San Martino è la nostra prossima tappa ed è qua a due passi che facciamo volentieri. L’edificio religioso è spesso stato al centro delle discussioni dei Colucci per delle ragioni che non tardo ad conoscere. Apprendiamo da un’iscrizione che la chiesa data del 1653 e che nel secolo scorso è stata restaurata ed è stato aggiunto l’attuale campanile. All’esterno, si notano subito i numerosi fori praticati nei blocchi non intonacati che hanno servito ad assicurarvi i ponteggi usati per la sua costruzione. Entrando capisco che per il famoso pittore la visita alla chiesa è più occasione per ammirare i dipinti che ne decorano l’interno che per cercare la propria moglie. E’ estasiato, in contemplazione, davanti alle scene della cristianità ma anche e soprattutto davanti a dei dipinti che non avrebbero attratto la mia attenzione se non mi avesse detto che hanno un significato esoterico come quello che sembra rappresentare un cigno che muore dando il suo sangue per nutrire i propri figli.
“Simboli massonici”, mi dice a bassa voce.
Non ho un’idea precisa di che cosa sia la massoneria ma dal tono della voce non appare un argomento da trattare con leggerezza, in speciale modo in un luogo che potrebbe essere il loro quartiere generale.
Il nostro viaggio prosegue verso la baia di Saint-Florent. La cittadina è dominata dalla cittadella costruita in sua difesa.
“Faceva gola a Nelson”, ci dice il signor Colucci.
“Ah, sì? Chiedo nella mia ignoranza.
“Saint-Florent era considerata di grande importanza strategica in quel periodo. Qui si trova una chiesa del dodicesimo secolo che non mi dispiacerebbe affatto visitare. Si tratta di Santa Maria Assunta sulla strada di Poggio d’Oletta. Mia moglie potrebbe avere avuta la stessa idea.”
“Sbaglio o mi ha detto che sua moglie avrebbe visitato una chiesa pisana?” lo interruppe il gendarme.
“Ma è pisana” protesta il pittore.
“ah!”, si arrende il militare.
La cattedrale del Nebbio, un tempo sede vescovile, si trova a meno di un chilometro da Saint-Florent. Esternamente, ricorda la Canonica vicino a Lucciana, almeno per il mattoni calcarei in alternanza di toni. L’interno è costituito da tre navate e da numerosi pilastri con, scolpiti, animali o motivi floreali. I gendarmi, che non sembrano molto interessati all’arte religiosa, ne approfittano per fumare una sigaretta e chiacchierare sul sagrato. Dalle risate che sentiamo all’interno della chiesa giurerei che ne sono arrivati alle barzellette. Dentro non c’è nessuno a parte io e il signor Colucci e appare quindi ovvio che qui la sua signora non ci sia. Quasi a malincuore, riprende il viaggio verso Lumio.
Dopo Saint-Florent, ci addentriamo nel deserto degli Agriates. E’ un nome che un po’ mette paura: non vorrei ora che le nostre automobili avessero dei problemi proprio in pieno deserto! Il paesaggio non è tuttavia completamente desertico. La roccia, è vero, è l’elemento dominante ma affiora ancora abbondante la vegetazione anche se piuttosto bassa come il cisto, il mirto, il corbezzolo, l’ ulivo e la quercia. Il pittore guarda il paesaggio sfilare dal suo finestrino come se sperasse trovarvi la moglie o, molto più probabilmente, cercasse di imprimere nella sua mente la bellezza del luogo per riprodurla in un secondo tempo sulla tela.
“Un coniglio!” m’esclamo vedendone uno attraversare velocemente la strada e andare a nascondersi dietro un cespuglio di cisto. L’incidente sembra avere ridato il sorriso al pittore e penso che solo un pittore o un matto potrebbe sorridere in un deserto! In lontananza, i monti del Tenda sotto un potente sole allo zenit.
“A Casta ci fermiamo per mangiare qualcosa”, annuncia il comandante.
“Se permettete vi faccio assaggiare un formaggio di pecora che è un capolavoro…”
Casta più che un paese è un agglomerato di due case e neanche vicine l’una all’altra. Ci fermiamo sotto la prima la quale sorge sul costone sul lato sinistro della strada e seguiamo un sentierino che sale sino all’ingresso al primo piano. Entrando il comandante saluta e ci presenta. Una calorosa stretta di mano poi ci sediamo su delle sedie un po’ sbilenche intorno a un tavolo che viene apparecchiato alla bella e meglio dal padrone di casa. Il luogo, più che un punto di ristoro sembra la casa di un pastore. In fondo, un camino acceso continua ad annerirne le pareti e il basso soffitto. A una trave sono appese alcune salsicce, dei lonzi, dei figatelli e delle coppe mentre su un vecchio tavolo di castagno alcune forme di formaggio profumano l’ambiente. Un paio di galline e una pecora entrano ed escono liberamente.
Il padrone di casa è un tipo piuttosto basso e scuro di pelle. Un po’ di grigio sulle tempie.
Ci porta un’intera forma di formaggio, dei salumi e, per tagliarle, delle vendette corse dalla lunga lama e il manico di osso. Un goccio di vino rosso non può ovviamente mancare.
“O Ghjisè!” dice il brigadiere Battesti, quello pelato senza baffi, “cum’è quella canzone chi m’hai cantatu l’altra volta? Ci la poi cantà?”
Il nostro ospite non ci mette molto per assumere una posizione da serenata, come rivolgendosi alla persona amata da sotto al suo balcone o a un pubblico in piccionaia. Beve un sorso di vino, si schiarisce la voce e canta il sublime lamentu di una ragazza innamorata che vede partire il fidanzato chiamato a fare il militare:
Se ne parte lu mi falcu
E pe’ aria si ne vola,
Cume aia da passalu
Lu mi tempu cusì sola?
Che iornate cusì triste
Cume chiodu negru in tola.
Di passata pa’ u chiassu
Ti cunuscia a scherpata
Ma parlà un si putia
Che mi tenianu serrata
Un ci sia nessun donna
Cume me disgraziata
Si putessi fa lu giru
Chellu che face la luna
E po vedeti nellu finu
Caru di la mi fortuna!
Il dolore, lo strazio della separazione ingiusta e crudele ci viene rappresentato come una tragedia greca in una terra dimenticata dagli dèi. Ma le donne corse, all’immagine della Corsica intera, si rafforzano nella separazione, nell’abbandono e nella morte. Terminiamo mestamente il nostro pasto e ci congediamo da Ghjisè. Preso dalle parole e dalla melodia non mi riesce di capire chi abbia pagato il conto ma credo che mi convenga starmene zitto.
Il deserto è ancora lì, in attesa, come non sapendo se ucciderci o farci felici.
Colucci è cupo. Più la macchina si avvicina a Lumio e più mi sembra abbattuto. Il lamentu, forse, oppure il timore, se non la certezza di non rivedere più la propria moglie. Sente di trovarsi sotto un cielo immenso che non riconosce le sue creature, esseri fragili in balia del destino. Un’immagine attraversa la sua mente. Non la può scacciare, anzi ogni tentativo di mandarla via la fa tornare ancora più forte e nitida della volta precedente. E’ una veglia funebre, con i voceri e i pianti strazianti. Ma sul tavolo mortuario, a tola, c’è lei, sua moglie, che oggi ama come non l’ha mai amata prima. Gli tornano alla memoria alcuni versi di un voceru raccolto da lei stessa qualche anno prima a Castello di Rostino:
Piangi, o Marì Francè,
Tu chi si zitella sposa
Pichierai alla mia porta
Quando ti manca qualcosa
Giungerai a ritrovarmi,
Ma la troverai chiosa.
La strada è ancora lunga, la stanchezza comincia a farsi sentire e i diversivi si fanno sempre più rari. Siamo finalmente arrivati a L’Île-Rousse. Ci fermiamo appena il tempo di rinfrescarci a una fontana rinunciando di fatto a alla contemplazione delle sue coste rocciose. Uno sguardo, forse, dal finestrino, per vedere se effettivamente sono rosse…
Lumio, villaggio di luce sulla baia di Calvi. Accostiamo davanti alla prima casa alla cui finestra si è appena affacciata una vecchia signora vestita di nero. Le chiediamo dove possiamo trovare la casa della famiglia Raffalli. Si fa il segno della croce e ci spiega che la possiamo trovare poco più in là di fianco alla bottega.
Parcheggiamo le macchine sotto l’abitazione che ci è stata indicata e bussiamo alla porta. Ci apre una donnina energica, anch’essa vestita di nero. Ci fa entrare.
“Madama”, chiede il comandante di brigata, “La conoscete la signora inglese venuta qui il mese scorso?”
“Sì, che la conosco!”, risponde. “E’ la signora che fa tante domande e scrive i nostri voceri. Sta ancora a casa di mia cugina Assunta, credo..."
“E' ancora in paese, signora! Ma come mai ci è rimasta così tanto?" chiede Colucci.
“Il fatto è che pensavamo che mio marito sarebbe morto presto come ci ha detto il medico ma Antonini, il murtulaghju del paese, ha chiesto alla morte qualche giorno di vita in più perché ha fatto solo del bene. Dio abbia pietà della sua anima… Ma non sarete come quei continentali che non credono a queste cose?”
“Ci crediamo!”, protesta il gendarme Battesti. “Ho uno zio murtulaghjiu che ha interceduto per molte persone che stavano lasciando questo mondo…”
“E' sicura che è ancora in paese?”, chiede il signore Colucci.
“Dovrebbe, sempre che non sia andata a Calvi a parlare con un altro murtulaghjiu come mi disse la settimana scorsa. Vi accompagno da mia cugina Assunta…”
Ci addentriamo in una viuzza stretta. Ho qualche difficoltà a camminare sull’acciottolato reso scivoloso dall’acqua di panni recentemente stesi a una finestra. Bussiamo. E chi ci viene ad aprire, miei cari lettori? Lei, la bella Edith Southwell-Colucci. Sorride, anzi, ride dalla felicità.
“Amore mio!” dice lanciandosi nelle braccia del marito. E’ un abbraccio lungo e forte ed è un bacio d’amore.
“Entrate!”
Entriamo e quel che vediamo ci strappa un sorriso tenero e vale mille spiegazioni: un neonato nella sua culla e la mamma premurosa che gli canta una ninna nanna.
Pighianu all’usciu
So li gendarmi fora
Cercanu a Babbitu
Ma quist’è una trist’ura
Babbitu è in campagna
Duvè lu farà dimora.
Fa la ninna, e fa la nanna
Figliulellu dilla mamma.
[il lamentu, il vocero e la ninna nanna sono stati pubblicati in Chants Populaires Corses alle Edizioni Mediterranea]
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