La scuola era situata in Carughjiu sumerà, in lingua corsa la via dei somari, al primo piano di un vecchio palazzo che ne contava tre. Ai lati del portone d’ingresso pendevano malinconicamente due anelli di ferro a cui anticamente venivano legate le briglie di quei poveri animali. Mia madre, forse più impaurita di me, mi accompagnava al mio primo giorno di scuola stringendomi forte la mano. Salimmo il cuore in gola una rampa di scale irregolari fino a due gradini da un pianerottolo già riempito da una moltitudine di mamme e bambini della mia età. Mi abbracciò forte come se non fosse convinta di fare la cosa giusta consegnandomi alla maestra: una volta varcata la soglia dell’aula scolastica avrebbero inflitto a suo figlio le terribili torture delle “coniugazioni” e della “grammatica”. Credo che tutti ne fossero coscienti su quel pianerottolo e i bambini in particolare i quali tentavano il tutto per il tutto per dissuadere delle mamme inspiegabilmente insensibili e sorde alle loro implorazioni: piangevano, urlavano, si aggrappavano, puntavano i piedi, si gettavano a terra. Invano perché le persone di cui più si fidavano al mondo li avevano ceduti allo Stato.
Non so dove trovai la forza, o forse fu soltanto rassegnazione, ma, una volta baciata la mamma e giurato che avrei fatto da bravo, silenziosamente, attraversai quella fitta folla andandomi a sedere all’ultimo banco di un’aula ancora vuota, buia e triste. Rimasi lì a guardare lungamente la lavagna, la cattedra sulla sua predella e, sulla cattedra, una bacchetta di legno. Ebbi improvvisamente voglia di fuggire, di farmi strada tra le mamme che spingevano, trascinavano, pregavano, minacciavano, abbracciavano e consolavano dei bambini inzuppati di lacrime. Quanto desideravo ripercorrere all’incontrario le poche centinaia di metri che separavano la scuola dei somari da casa, aprire la porta, correre verso mamma, buttarmi nelle sue braccia e farle giurare che mai più mi avrebbe abbandonato!
Sarebbe stato facile andarmene. Nessuno, ne sono certo, se ne sarebbe accorto, ma non ebbi il coraggio di lasciare la scuola finché ero ancora in tempo, finché ero ancora libero. Quell’errore lo pagai per tutta la vita perché da quel giorno la scuola non mi lasciò più. Fu quindi per vigliaccheria che andai incontro al mio destino diventando ventitré anni dopo insegnante di francese.
1 commento:
In questa "piccola storia", c'è tutto il destino di una vita. ;-)
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