Si chiamava Jeannot, come Jeannot Lapin, il coniglio delle fiabe di cui non sapevo proprio nulla ma con cui il mio di Jeannot non aveva sicuramente niente a che fare. Era un pazzo, secondo la terminologia del tempo, non da manicomio ma di quelli innocui che si lasciavano gironzolare liberamente per le strade. Si fermava sotto le finestre alle quali erano affacciate donne sorridenti, ma spesso affiancate da mariti, padri o fratelli ilari, e cantava con naturalezza una canzone di Edith Piaf o di Tino Rossi.
“Non, rien de rien
non, je ne regrette rien…”
La sua voce rauca e potente rotolava le erre della lingua francese come i torrenti trascinano i sassi nei loro ruvidi letti. Vibravano i cuori mentre lui ricominciava con Milord, La Boudeuse o qualche canzone romantica d'altri tempi. Qualche volta, da dietro una persiana, una voce femminile lo accompagnava, sulle prime un po’ timida, poi sempre più convinta e gioiosa. Cantavano la vita, l’amore, la malinconia, la sofferenza e la morte, a lungo, come i violini che ridono, sospirano e piangono solitari nei nostri cuori. E strappava l’applauso Jeannot, sempre. Poi faceva un inchino per ringraziare e per raccogliere le monetine che ben volentieri gli lanciavano. Allora lo raggiungevo in mezzo alla via e lo aiutavo a recuperare le monete che rimbalzavano fin sotto le macchine o si nascondevano tra due lastre della strada. Poi lo vedevo allontanarsi, sparire alla prima curva e lo sentivo riproporre poco più in là, sotto qualche finestra e gli occhi incantati di altre signore e signorine, le sue appassionate serenate. Ma sempre s’avvicinavano i mariti, i padri e i fratelli con dei sorrisi che non conoscevano la pietà.
2 commenti:
Le tue parole sono colpi di pennello e note pizzicate.
Grazie, Luca. E' un pezzo di passato che volevo ricordare anche usando, come al solito, poche parole.
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