Avessi detto "moscone", avrei capito, ma non l'ho detto, e se l'ho detto non me lo ricordo.
giovedì 5 maggio 2011
Nido di rondine
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Murato è un piccolo paese dell'Alto nebbio dove regna la pietra grigia, che costituisce la materia prima della casa còrsa e si rivela nei muri scrostasti dal tempo, nei balconi e sui tetti ricoperti di grosse lastre d’ardesia, nel passamano e nei gradini delle scale esterne che portano al primo piano delle abitazioni tradizionali.
Ghjisè Raffalli, che da trent’anni aveva lasciato Murato per la città di Bastia, aveva deciso di trascorrere gli anni che gli rimanevano da vivere, e di morire, nel paese che gli aveva dato i natali, regalato un’infanzia felice e presentato il primo amore. Così se n’era tornato nella casa dei suoi, ormai abbandonata, ma che con poca spesa era riuscito a rendere di nuovo abitabile. Gli avevano offerto di eseguire i lavori gratuitamente, a titolo di vaga parentela e di amicizia, a nome di un passato che riemergeva a ogni parola pronunciata, a ogni inflessione della voce, a ogni sguardo, a ogni gesto. Ma Ghjisè era orgoglioso e testardo e preferiva non dover niente a nessuno per non essere un giorno rimproverato di non avere pagato i suoi debiti. Era vedovo e non aveva lasciato eredi, o forse sì, ma indirettamente, perché suo fratello maggiore, ormai defunto, aveva famiglia in continente.
Aveva settant'anni, e tutto sommato li portava bene, ma era stanco e malinconico. Lui diceva di essere ammalato, forse più per essere compatito nella solitudine nella quale versava da troppo tempo, che per vera convinzione di esserlo. Aveva sentito parlare di una guaritrice, una certa Giuditta Poggioli, quarant’anni o poco più, vedova, che a quanto pareva veniva da Rutali, il paese vicino, dove i suoi amuleti avevano dato sollievo a molti ammalati. Non che Ghjisè credesse fermamente che gli esseri umani fossero in grado di operare delle miracolose guarigioni, il fatto è che in cuor suo voleva crederci, come aveva sempre voluto credere nei poteri dei mazzeri e dei murtulaghji.
Era una domenica mattina del mese di aprile. Ghjisè si era rasato, aveva pettinato i suoi radi capelli bianchi e messo i vestiti migliori. Tutto sommato, era ancora un bell’uomo, Ghjisè. Sapeva che la guaritrice non riceveva la domenica ma volle lo stesso presentarsi a casa sua eventualmente facesse un’eccezione. Si avviò sulle lastre grigie delle vie del paese. In pochi minuti, giunse davanti all’abitazione della signora Poggioli. La vide seduta sull’ultimo gradino della scala esterna. Aveva qualcosa di triste, infelice, negli occhi. Guardava lontano, come in attesa di qualcuno, forse di quel qualcuno che ora era proprio sotto di lei e di cui non si era ancora accorta. Aveva una lunga gonna nera, e nient’altro sotto la gonna. Le gambe erano aperte, come per prendere il fresco, e lasciavano vedere quel che a Ghjisè sembrò un nido di rondine, di quei nidi che stanno sotto gli spioventi dei tetti o sotto i balconi. Ghjisè non disse nulla, non si schiarì neppure la voce. Rimase semplicemente lì, interdetto, a guardare. Lei mise parecchio tempo prima di avvertire la sua presenza. Quando abbassò lo sguardo verso di lui, il suo volto arrossì improvvisamente.
Quella domenica fece un’eccezione.
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