Un tempo le valigie degli emigrati sardi, nonostante il divieto assoluto affisso all’ingresso delle dogane, venivano riempite di ogni ben di Dio, tra cui le nostre migliori salsicce, interi agnelli o maialetti cotti, o da cuocere e ancora avvolti nella carta oleata della macelleria. Non mancavano le forme di formaggio, le bottiglie di buon vino, di Villacidro o di Marsala che invariabilmente si rompevano prima di arrivare a destinazione. Ma i doganieri chiudevano sempre un occhio e si accedeva sul ponte della nave tirando ogni volta un gran sospiro di sollievo.
Oggi, la parola “emigrato” non fa più parte del nostro vocabolario, il sottovuoto ha quasi del tutto sostituito la carta oleata e l’aereo la nave, ma il traffico è sempre quello. E se nei porti continuano a non degnarti neanche di un’occhiata, in aeroporto, l’addetto ai controlli radiogeni dei bagagli da stiva, ilare, vede sfilare sul nastro trasportatore intere greggi di agnelli, famiglie di maiali e maialetti al gran completo, abilmente adagiate tra gli indumenti intimi e i maglioni. E sono salsicce di Irgoli, trecce e trattalias, casizoli di Santulussurgiu, seadas ancora congelate, bottiglie d’olio di Ittiri, di Mirto o di Nepente di Oliena.
E ogni volta lo stesso sospiro di sollievo.
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