giovedì 13 dicembre 2007

Fiori di campo


Da piccolo avrei voluto portare dei fiori alla mia maestra ma ero troppo timido per osare. Aspettavo chissà quale spinta, chissà quale occasione. Le volevo portare dei fiori che avrei raccolto dal campo di fronte alla scuola. Un fiore giallo e poi anche un fiore viola, quei fiori piccoli che nessuno sa come si chiamano. I fiori dei campi mi sono sempre sembrati più belli delle rose o dei gerani che si mettono nei vasi. Lei mi avrebbe sorriso, ringraziato, forse anche baciato davanti a tutta la classe. Io sarei diventato rosso come un pomodoro ma avrei ricordato per tutta la vita le poesie che ci faceva imparare a memoria.
Oggi mi è preso così. Natale è alle porte, il freddo comincia a pungere il naso e le orecchie e a fare brillare gli occhi. C’è something in the air, un ritmo, quasi una canzone, un qualcosa che mi spinge oltre l’ultima casa della mia piccola città, che mi fa cogliere un fiore giallo e poco più in là un fiore viola. Mi presento alla sua porta. Suono al campanello. La vecchia maestra mi riconosce, mi bacia, arrossisco, prende i fiori e mi fa entrare.

mercoledì 12 dicembre 2007

Effetto Duarte


Può l'ignaro Pedro Garcìa Ramon Pascual Duarte, capraio solitario della Sierra Madre, provocare, togliendosi le scarpe, la fuga dalle coste mediterranee, la moria dei pesci dell'Adriatico, l'allertamento di tutte le capitanerie di porto, la paralisi totale di tutto il traffico aereo mondiale, il susseguirsi affannoso di bollettini meteorologici catastrofici su scala planetaria?

Certo che può.

lunedì 10 dicembre 2007

Di che colore è il tuo fiore?


Londra. Sala d’attesa dello studio di un famoso primario. Venti persone sedute su altrettante sedie. Quello seduto a destra non è seduto a sinistra. Il primo paziente è più alto del secondo, quindi il secondo paziente è meno alto del primo. Il terzo paziente è mio fratello. Mio fratello si chiama John, mia sorella si chiama Jane. Esce l’assistente del medico. Chiede: “Chi è Jane?” Rispondono tutti i pazienti in coro: “Jane è la sorella di John!”. Perplessa l’assistente chiede: “Chi è John?” I pazienti: “John è il fratello di Jane!” L’assistente segna qualcosa in una cartella poi rientra nello studio medico. Ora esce il primario. Mostra a tutti la penna con la quale stava scrivendo poco prima. Chiede: “E’ una finestra?” In coro: “No, non è una finestra!” “Che cos’è?” Il coro: “E’ una penna!” “Bene! Stiamo facendo dei progressi. Ora potete andare. Mi raccomando prendete le medicine!” I pazienti non escono dalla finestra, Jane è la sorella di mio fratello, il medico è più alto dell’assistente, il mio fiore è blu.

domenica 9 dicembre 2007

Un racconto per il mio cane

Vorrei dedicare al mio cane le più belle delle mie righe, usare per una volta i suoi lamenti e, perché no, le sue parole, dirgli il mio racconto come si da un osso avvolto di cartilagine e pieno di midollo. Un osso non basta a farlo tornare, lo so, così come non bastano le mie ricerche, le mie perlustrazioni, così come sono vani i miei appelli notturni per le vie della mia triste città. Vorrei raccontare la storia di un cane che, come era capitato a qualcuno un tempo, si è innamorato. Il padrone, come me, non voleva farlo uscire. Non che fosse spietato e particolarmente crudele. Un eccesso di prudenza forse. Oggi le strade non sono sicure come una volta. Si rendeva perfettamente conto che lì, a pochi isolati di distanza, c’era la sua lei, forse un po’ troppo grande per lui, ma una lei carina con un ciuffetto, degli occhi… Niente da fare. Gli esseri umani non sanno più capire queste cose. Hanno dimenticato che, quando ancora erano giovani, passavano nel parco non per fare riposare della ossa stanche come fa qualcuno oggi, ma nella speranza del suo sorriso e magari di sedersi sul suo stesso banco con la scusa che non ricordavano quali esercizi aveva assegnato il prof di matematica. Gli uomini dimenticano facilmente. Non sono veramente malvagi. Quello che manca loro è la memoria. Cavolo, ma perché non le scrivono le cose? Perché non se le segnano da qualche parte e le rileggono quando il loro cuore si è un po’ indurito? Il mio racconto dovrà finire con queste parole: perdonami, amico mio, avevo dimenticato.

venerdì 7 dicembre 2007

Bastone e polpette


Io ormai non mi faccio più tenere la mano da nessuno quando sto seduto sul cesso a fare la cacca. Il nonno, invece, era solito riunire la famiglia al gran completo facendoci accomodare chi su una piccola seggiola, chi su uno sgabello, chi sul bordo della vasca, chi sulle ginocchia. Non mancava mai nessuno, questo no, non solo perché non avevamo il coraggio di fargli la scortesia di non esserci in quei momenti ma soprattutto per non perderci niente delle sue storie. Ci guardava ad uno ad uno, in un appello muto, e costatata la presenza di tutta la famiglia cominciavano le sue narrazioni. Ricordava i tempi bui e freddi, quando per andare a fare i propri bisogni si usciva fuori di casa e le bestie fameliche girovagavano per le strade di paese azzannando le chiappe audaci di chi, non potendone più, non poteva attendere l’alba. Ricordava quella volta, quando era accovacciato proprio sopra a quei pungitopo che abbellivano il suo orto: un ringhio e due lame nella notte, due lingue di fuoco che lo fissavano, insistenti, Lì. Come riuscì a salvarsi la vita? Evidentemente se era davanti a noi a raccontarci le sue avventure in qualche modo ci riuscì. Tutti volevamo sapere. Sì, nonno, come hai fatto a tirarti fuori da quella situazione? E allora sorrideva. Ogni volta che arrivava a quel momento preciso delle sue spericolate avventure sorrideva e ci raccontava il seguito… E noi, come se la storia ci fosse stata raccontata per la prima volta, spalancavamo degli occhi meravigliati sul suo passato. La prima cosa da fare quando si usciva a fare i bisogni, raccontava, era di prendere un bel bastone di legno duro, come questo. Normalmente bastava ad allontanare quelle belve ma se proprio non fosse bastato c’erano le polpette. La nonna ogni volta che mi vedeva uscire a notte fonda me lo ricordava sempre: Antioco prendi il bastone e le polpette. Io mi dimenticai il bastone e, il tempo di cercare un punto tranquillo e riparato dagli sguardi indiscreti, mi ero già mangiato le polpette. Non verrà, mi dicevo. Ma mi illudevo: così mi ritrovai tremante davanti alla bestia nera senza bastone e senza polpette. E allora cosa hai fatto, nonno? E’ semplice: le ho tirato un sasso. Questa ha pensato che fosse una polpetta e si è messa a cercarla nell’erba lasciandomi il tempo di sistemarmi i pantaloni e di rientrare a casa. E io applaudivo ogni volta. Era fantastico il nonno che aveva pensato a tirare un sasso a quel mostro! E quanto era felice il nonno di essersi lasciato alle spalle la paura del lupo e il freddo invernale! Ringraziava il progresso che gli aveva portato il cesso in casa così come si porta un regalo a Natale. Ci stringevamo a lui e lui a noi come sa stringersi una famiglia unita nel momento dei bisogni.

martedì 4 dicembre 2007

La carovana è tranquilla

La carovana è tranquilla, i nomadi bevono tè e camomilla, i contadini nei campi brulli non si accorgono di nulla, in città tutto scricchiola, vacilla e crolla. Le colonne bianche franano sul popolo, i muri sono rasi al suolo, i corvi guardano i corpi e i corpi i corvi. I malviventi dallo sguardo torvo escono dai covi, uno stuolo di streghe volano come storni e le genti, spinte dalla fame, sono mandrie tra le tombe… “Coraggio, fratelli, non buttatevi giù. E’ l’ora degli eroi, di dire MAI PIÙ. Un giorno tutto questo avrà fine, il nostro futuro non è tra le rovine. Impugniamo gli arnesi e con le nostre forze, scaviamo, costruiamo, riedifichiamo, con uno slancio rinnovato e la mano sicura… ehi tu, di là, perché devasti la pianura?”

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domenica 2 dicembre 2007

Schegge

E’ solo un umile ricordo, una scena, una scheggia di vita volata via come una stella cometa, e come una stella cometa tornata graffiando il mio cielo una notte di san Lorenzo. E’ la dolce, la tenera, l’immensa immagine della felicità. Una di quelle immagini che poi ti ritrovi come la compagna che fa con te il resto del cammino, che ti aspetta quando il tuo incedere si fa troppo lento e doloroso, che veglia il tuo sonno e si fa consolatrice le notti di solitudine. Una scheggia di vita, un battito di cuore. Papà. Sto per fare quello che ho spesso fatto non sapendo che forse è per l’ultima volta. Ho in mano le tronchesine o le tenaglie che usavi in cantiere: non farò ai tuoi piedi l'affronto di prendere un semplice tagliaunghie, questo no! Il rito sta per iniziare. Sembrerebbe che il gatto ghiotto di lunule lo abbia capito, come al solito, ma si avvicina prudentemente, forse memore del missile che gli ha centrato l’occhio la volta precedente. Ora una scheggia colpisce il mio, scheggia d’addio, una la cristalliera, scheggia in crociera, una il mio cuore. Scheggia d’amore.