Il tetto dell’inferno crollò improvvisamente, quasi senza fare rumore. Nell’ombra dell’ombra un uomo gridava che voleva vivere ancora. Accorsero. E’ inutile, da lì non si passa e non si può fare saltare la roccia con l’esplosivo. Spacchiamola con la mazza e preghiamo Iddio di arrivare in tempo. Se lo salvavi era tuo fratello, se moriva era tuo fratello.
Ed erano tuoi fratelli tutti quelli che ti stavano intorno, la fronte lavata dal sudore, le guance dalle lacrime e la sera la bocca dal vino peggiore.
Ho riempito venti vagoncini di materiale e me ne paghi quindici. Il bambino che mi è nato ieri lo chiamerò Lenin. Giuro che lo chiamo Lenin perché così ci state uccidendo. All’alba, marceremo con tutti i miei fratelli verso la città. A centinaia sputeremo per terra guardando il sole in faccia.
“L’ho organizzato io quello sciopero, sai?”
Il vecchio scava nei suoi ricordi. Racconta una storia di sangue e di dolore, una storia di terra, di pietra, di polvere, una storia triste e dura, una storia bella, quasi d’amore. Una storia di miniere. Le parole che risalgono dalle profondità sono nere come il carbone, rosse come la rabbia, dolci e stanche come quando l’argano lo riportava alla luce del sole. Sono parole nostalgiche che inseguono dei volti e dei nomi nelle gallerie del passato, sempre più profonde, più strette e buie. E beve del pessimo vino per ricordare meglio, per mandare giù la polvere del tempo come fosse quella che respirava una volta. Il figlio, che poi ha rinunciato a chiamare Lenin, beve con lui e ascolta. Ha una penna in mano.
“Hai scritto, Lino?”
“Ho scritto, papà.”
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