E’ un vecchio palazzo scrostato di tre piani. Sulla sinistra vediamo le rampe delle scale in muratura che portano esternamente sino al secondo e lasciano supporre che si acceda al terzo piano dall’interno delle abitazioni. Sulle scale e nella via si sono riversate circa trenta persone a cui hanno chiesto di guardare l’uccellino stando ferme senza respirare. I bambini davanti sembra che lo aspettino davvero l’uccellino e che sperino, chi in un canarino, chi in uno scricciolo e chi in un piccolo storno autunnale. Riconosco i posti della cartolina postale ma non le persone. Le finestre, semichiuse o con le gelosie appena sollevate, sono le stesse che si possono ancora trovare nella città di Bastia. Sulla destra, al primo piano, si affaccia un comunissimo terrazzo delimitato da uno sgabuzzino e che una tettoia ripara dal sole o dalla pioggia.
Che cos’è questo tubo di argilla che si arrampica lungo la facciata? Si tratta in realtà di una serie di tubi, lunghi meno di un metro e di un diametro di circa venti centimetri, incastrati l’uno nell’altro. Potrete notare che la parte inferiore dell’intera struttura affonda un po’ in una traccia ed è stata assicurata al muro con il cemento mentre è stata tassellata dal primo piano in su. Seguiamolo questo tubo. Presto un ramo si avventura obliquamente a sinistra per fermarsi all’angolo di quella finestra del primo piano. Il troncone centrale prosegue la sua ascesa diramandosi ulteriormente a destra e a sinistra verso altre finestre. L’effetto ricorda in più irregolare quello della venatura di una semplice foglia. Nessuno mi chiede a che cosa servisse? Non fa nulla, ve lo dico lo stesso: si tratta del famoso “cunduttu”. Il cunduttu era il sistema fognario per eccellenza che funzionava a tutta forza sino a pochi decenni fa: il bastiaccio come viene chiamato tutt’oggi, faceva i suoi bisogni, tutti i suoi bisogni, in un secchio di metallo smaltato chiamato “u cadinu” che la donna andava a svuotare al calare della notte, sicura di non essere vista dalla vicina di casa. E’ vero tutte prima o poi lo andavano a svuotare il loro cadinu ma sarebbe stato estremamente imbarazzante farlo davanti ad altre persone. Apriva piano piano la finestra, dava uno sguardo a destra e a sinistra poi senza fare rumore toglieva il tappo di sughero o di legno del proprio cunduttu e vi versava discretamente quanto i cagoni a cui cucinava in continuazione avevano capitalizzato durante il giorno. Nella cartolina postale ci accorgiamo dalle lunghe ombre che è sera. Le belle signore sulle scale hanno già da ora due preoccupazioni. La prima è di cucinare.
Avessi detto "moscone", avrei capito, ma non l'ho detto, e se l'ho detto non me lo ricordo.
domenica 20 dicembre 2009
Vent'anni
Fino alle undici e mezza di notte era stata una giornata come le altre, una domenica forse. Alle undici e mezza, infilando il doppione della chiave nella camera della casa dello studente nella quale ero “abusivo”, mi ricordai improvvisamente che era il quattro dicembre e che quel giorno era il mio compleanno, il mio ventesimo compleanno, quello che si festeggia con tutta la famiglia e tutti gli amici con champagne, torta e ancora champagne. La fata turchina, o lo zio Alfonso che non ho, avrebbe aperto la porta e in un fascio di luce azzurra mi avrebbe offerto su un cuscino di seta le chiavi di una spider nuova fiammante. Tutti avrebbero cantato “Tanti auguri a te e la torta a me”. Ma io ero uno studente universitario abusivo in una camera singola della casa dello studente di Cagliari e come uno scemo mi ricordai di avere venti anni alle undici e mezzo di notte. Il titolare della camera che veniva da Uras un paese del nostro campidano, disse: “ Mi dispiace, Lino… ma io ho solo questa patata bollita nel fornello…” Non pioveva quella notte, ma io aprendo chissà perché la finestra sentii il rumore della pioggia, nel mio cuore e sul davanzale. Sì, perché in una busta di plastica marciva un’intera forma di formaggio sardo. I vermi saltavano e sbattevano sulla busta e a un cuore romantico bastava perché fosse inverno…
Quel giorno non fu perciò privo di magia: prima della mezzanotte festeggiammo con una mezza patata bollita e un temporale di vermi sardi il più bello dei miei compleanni.
Quel giorno non fu perciò privo di magia: prima della mezzanotte festeggiammo con una mezza patata bollita e un temporale di vermi sardi il più bello dei miei compleanni.
Johnny e Gilda
Le diede un ceffone, un ceffone talmente forte che in quel momento sembravano Johnny e Gilda nella famosa scena del film. “Dov’eri? Perché ci hai messo tanto tempo?” Lei che lo fissava con gli occhi dell’amore e lui che infieriva con le parole.
"Non sai quanto ti ho aspettata, non sai quante sigarette ho fumato e quanti caffé ho bevuto. Dov’eri quando cercavo i tuoi occhi nella folla, quando cucinavo dei minestroni che mi dovevano bastare per tre giorni e mi facevo gli orli da solo? E quando poggiavo la faccia sulla piastrella fredda del bagno per sognare un tuo bacio caldo e piangere? E la gente che rideva di me… - Non ce l’hai la moglie? Forse non hai trovato la donna giusta?… Non dirmi che ti stiri le camicie da solo! Odio gli uomini che stirano! - Ma vai a prendere per il culo tuo fratello finocchio, va! E tu, è da un’eternità che ti aspetto, amore mio. Sbarchi nella mia vita solo ora, ora che non ti aspettavo più e pensavo di vivere il resto dei miei giorni nella gelida e rassegnata solitudine, fingendo che fosse una mia scelta. Mi entri in casa così, senza chiedermi scusa per il ritardo, ora che ho quarant’anni e qualche acciacco. E i bambini, eh, non ci hai pensato ai bambini? Non ti sembra che sia giunto il momento di cominciare a farli questi bambini? Dai sbrigati, amore mio, altrimenti nascono già con la barbetta. Ti do un minuto. Ho aspettato quarant’anni, posso aspettare un minuto…"
"Non sai quanto ti ho aspettata, non sai quante sigarette ho fumato e quanti caffé ho bevuto. Dov’eri quando cercavo i tuoi occhi nella folla, quando cucinavo dei minestroni che mi dovevano bastare per tre giorni e mi facevo gli orli da solo? E quando poggiavo la faccia sulla piastrella fredda del bagno per sognare un tuo bacio caldo e piangere? E la gente che rideva di me… - Non ce l’hai la moglie? Forse non hai trovato la donna giusta?… Non dirmi che ti stiri le camicie da solo! Odio gli uomini che stirano! - Ma vai a prendere per il culo tuo fratello finocchio, va! E tu, è da un’eternità che ti aspetto, amore mio. Sbarchi nella mia vita solo ora, ora che non ti aspettavo più e pensavo di vivere il resto dei miei giorni nella gelida e rassegnata solitudine, fingendo che fosse una mia scelta. Mi entri in casa così, senza chiedermi scusa per il ritardo, ora che ho quarant’anni e qualche acciacco. E i bambini, eh, non ci hai pensato ai bambini? Non ti sembra che sia giunto il momento di cominciare a farli questi bambini? Dai sbrigati, amore mio, altrimenti nascono già con la barbetta. Ti do un minuto. Ho aspettato quarant’anni, posso aspettare un minuto…"
sabato 12 dicembre 2009
C’era un tale
C’era un tale che, senza saltare o correre, faceva i passi più lunghi delle sue gambe. Semplicemente queste gli si staccavano dal corpo il quale fluttuava nell’aria. Alcuni avevano le mani bucate, altri erano senza cuore o senza fegato ma avevano gli occhi più grandi dello stomaco e mangiavano a quattro ganasce. Vedevo gente con una patata al posto del naso e un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Ho visto una donna con un occhio di pernice, che mi guardava, mica la donna, l’occhio di pernice. Ce n’era una, machete in mano, che lottava con la sua foresta amazzonica che cresceva in continuazione.
Vedendo tutto ciò, l’inferno che avevano il potere di creare le mie parole, decisi di smetterla, di non parlare più. Dissi: “D’ora in poi sarò muto come un pesce”. Non l’avessi mai detto…
Vedendo tutto ciò, l’inferno che avevano il potere di creare le mie parole, decisi di smetterla, di non parlare più. Dissi: “D’ora in poi sarò muto come un pesce”. Non l’avessi mai detto…
venerdì 11 dicembre 2009
La mosca
Ho tre lauree, una in medicina, una in biologia, una in scienze naturali e sono ora una mosca. Avevo, prima, delle ambizioni, dei sogni, ma le mie fantasticherie morirono istantaneamente quando accettai una proposta di lavoro a due passi da casa.
E’ un piccolo laboratorio di analisi mediche nascosto in un triste anfratto cittadino, che in teoria, come recita la carta dei servizi, dovrebbe fare dei prelievi di sangue, studiare le intolleranze alimentari, fare ogni sorta di esame microbiologico, citologico, batteriologico, ed estendere le proprie attività alla medicina del lavoro. La sorte canaglia volle che si specializzasse in analisi di campioni biologici e cioè di orine e di feci, involontaria vocazione che fu all’origine della mia metamorfosi.
Quando misi piede per la prima volta nel laboratorio, avvertii un odore così forte, così acre che, scorgendo un pozzetto d’ispezione fognaria nel centro della sala d’attesa, messo lì a dispetto delle norme igieniche, pensai a qualche problema allo scarico che solo l’autospurgo poteva risolvere. Ben presto mi resi conto che la causa delle esalazioni mefitiche erano i campioni che vi ho detto i quali affluivano in enorme quantità creando, oltre al problema delle analisi, che inevitabilmente procedevano a rilento, quello dello stoccaggio e dello smaltimento. Ce n’erano dappertutto, su tutti i ripiani, per terra, sulle scrivanie, sotto, nei cassetti. I campioni provocavano questi inconvenienti logistici, tormentavano l’olfatto dei presenti e attiravano centinaia di mosche e mosconi. Ma non vi è nulla a cui non si possa abituare l’essere umano, specialmente quando è costretto a convivere con la causa dei propri mali. Già dopo alcuni giorni il mio naso non sentiva più i cattivi odori e, alla lunga, gli insetti volanti divennero dei compagni di viaggio oltre che dei commensali, quando il carico di lavoro mi costringeva a consumare i miei pasti in sede.
Questa promiscuità forzata, la mia specializzazione in entomologia, la mia curiosità naturale mi portarono ad approfondire i comportamenti delle mosche e credo di avere appreso da loro più di quanto un essere umano possa mai apprendere in una sola vita. Ammetto che la nostra convivenza fu inizialmente difficile, sofferta, specialmente in quei momenti di incomprensione reciproca tipica delle fasi di studio dei rispettivi linguaggi e delle rispettive identità. Ma una volta stabilito un minimo di comunicazione i nostri rapporti diventarono molto più collaborativi e, oserei dire, simbiotici.
L’avventura cominciò alla mia insaputa, in un momento imprecisato e per delle ragioni che ancora ignoro. Me ne resi conto quando mi erano già spuntate le ali, che ovviamente tenni nascoste sotto i vestiti. Quando anche la testa e il resto del corpo iniziarono la loro trasformazione, decisi di non togliermi più né cappello né mascherina né occhiali da sole né guanti e, per sottrarmi alla vista dei miei colleghi, di confinarmi nella mia porzione di laboratorio, in pratica uno sgabuzzino, in un esilio volontario che durò molto meno di quanto pensassi. Fui mosca in soli tre giorni e soli tre giorni mi rimangono da vivere.
Ma ho appreso ad accettare la morte, l’ineluttabile, orrenda morte, e a gioire pienamente della vita, con tutte le mie forze, per quel che mi dà, ogni giorno, in abbondanza. Come me altri, sette in tutto, che hanno subìto la mia stessa metamorfosi: siamo ormai in otto a fonderci in un rombare allegro, felice, in un vibrante, inebriante inno alla vita, e a sfregarci le zampette quando lo “chef” sorridente apre la porta e ci consegna la "Nutella".
E’ un piccolo laboratorio di analisi mediche nascosto in un triste anfratto cittadino, che in teoria, come recita la carta dei servizi, dovrebbe fare dei prelievi di sangue, studiare le intolleranze alimentari, fare ogni sorta di esame microbiologico, citologico, batteriologico, ed estendere le proprie attività alla medicina del lavoro. La sorte canaglia volle che si specializzasse in analisi di campioni biologici e cioè di orine e di feci, involontaria vocazione che fu all’origine della mia metamorfosi.
Quando misi piede per la prima volta nel laboratorio, avvertii un odore così forte, così acre che, scorgendo un pozzetto d’ispezione fognaria nel centro della sala d’attesa, messo lì a dispetto delle norme igieniche, pensai a qualche problema allo scarico che solo l’autospurgo poteva risolvere. Ben presto mi resi conto che la causa delle esalazioni mefitiche erano i campioni che vi ho detto i quali affluivano in enorme quantità creando, oltre al problema delle analisi, che inevitabilmente procedevano a rilento, quello dello stoccaggio e dello smaltimento. Ce n’erano dappertutto, su tutti i ripiani, per terra, sulle scrivanie, sotto, nei cassetti. I campioni provocavano questi inconvenienti logistici, tormentavano l’olfatto dei presenti e attiravano centinaia di mosche e mosconi. Ma non vi è nulla a cui non si possa abituare l’essere umano, specialmente quando è costretto a convivere con la causa dei propri mali. Già dopo alcuni giorni il mio naso non sentiva più i cattivi odori e, alla lunga, gli insetti volanti divennero dei compagni di viaggio oltre che dei commensali, quando il carico di lavoro mi costringeva a consumare i miei pasti in sede.
Questa promiscuità forzata, la mia specializzazione in entomologia, la mia curiosità naturale mi portarono ad approfondire i comportamenti delle mosche e credo di avere appreso da loro più di quanto un essere umano possa mai apprendere in una sola vita. Ammetto che la nostra convivenza fu inizialmente difficile, sofferta, specialmente in quei momenti di incomprensione reciproca tipica delle fasi di studio dei rispettivi linguaggi e delle rispettive identità. Ma una volta stabilito un minimo di comunicazione i nostri rapporti diventarono molto più collaborativi e, oserei dire, simbiotici.
L’avventura cominciò alla mia insaputa, in un momento imprecisato e per delle ragioni che ancora ignoro. Me ne resi conto quando mi erano già spuntate le ali, che ovviamente tenni nascoste sotto i vestiti. Quando anche la testa e il resto del corpo iniziarono la loro trasformazione, decisi di non togliermi più né cappello né mascherina né occhiali da sole né guanti e, per sottrarmi alla vista dei miei colleghi, di confinarmi nella mia porzione di laboratorio, in pratica uno sgabuzzino, in un esilio volontario che durò molto meno di quanto pensassi. Fui mosca in soli tre giorni e soli tre giorni mi rimangono da vivere.
Ma ho appreso ad accettare la morte, l’ineluttabile, orrenda morte, e a gioire pienamente della vita, con tutte le mie forze, per quel che mi dà, ogni giorno, in abbondanza. Come me altri, sette in tutto, che hanno subìto la mia stessa metamorfosi: siamo ormai in otto a fonderci in un rombare allegro, felice, in un vibrante, inebriante inno alla vita, e a sfregarci le zampette quando lo “chef” sorridente apre la porta e ci consegna la "Nutella".
domenica 6 dicembre 2009
Lirica di balalaika triste
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