Avessi detto "moscone", avrei capito, ma non l'ho detto, e se l'ho detto non me lo ricordo.
sabato 6 dicembre 2008
Altra conversazione col Bullecco
Gli stabilimenti del Préventorium di Luri, l’istituto per l’infanzia disagiata, erano disposti su due di tre terrazzi via via più piccoli. Il primo, quello più in alto, era sufficientemente grande da illudere i ragazzini di trovarsi su un campo di calcio. Ai bordi, il refettorio comune, il dormitorio dei maschi e una chiesetta . Il secondo, dove giocavano le ragazze, a cosa non si capiva bene, era decisamente più piccolo. Ai lati, il dormitorio delle ragazze, la lavanderia, le docce e una piccola scuola. Vicino alla scuola il giardino sempre in ordine del temuto direttore dove un certo Fregosi, così si mormorava, depose una mattina di maggio il più grosso dei suoi bisogni riuscendo a fare punire un altro al suo posto. Chi dirigeva il Préventorium doveva avere un cuore freddo, duro e freddo come il marmo della piccola tomba che occupava, solitaria, il terzo terrazzo. Vi era uno stesso nome inciso in quel marmo e in quel cuore: il nome di suo figlio, ucciso diversi anni prima da un rigido e spietato Natale.
Il bimbo chiese alla sua mano, il bullecco, se anche lui avesse i brividi. Il bullecco rispose di sì, che non stava bene, che era stanco. Il bimbo rimise il suo amico sotto le coperte al riparo dal freddo di quella notte di dicembre. La febbre e la voglia di fare pipì lo avevano destato nel pieno di una notte pulsante di sogni. I fratelli Pleuf-dans-l’oeuf sognavano una fantastica evasione oltre il Monte Cacao, oltre la grande e la petite source, laddove i cacciatori con i loro segugi non li avrebbero mai più riacchiappati. Ad aspettarli la mamma sorridente davanti alla loro casa, che nei loro disegni era sormontata da un comignolo fumante e circondata da tanti fiori. Spakov sognava l’allegria della sua famiglia numerosa mentre Fregosi trovava finalmente il baule pieno di monete d’oro di cui parlava in continuazione. Diceva che davanti a quel tesoro sarebbe svenuto e mostrava come ai compagni meravigliati lasciandosi cadere teatralmente a terra. Spaghetti le grand, fratello maggiore di Spaghetti le petit, il bimbo, sognava di Carolina, il cucciolo di cinghiale trovato proprio sotto la torre di Seneca. Carolina era diventata la mascotte di tutto il Préventorium e dove andavano i ragazzini andava anche lei. Spaghetti le petit non dormiva e non sognava più. Non potendo più resistere decise di affrontare il freddo e il buio. Posò i piedi nudi sul pavimento e seguì prima l’allineamento delle spalliere fino al muro poi il muro stesso fino ad una porta che aprì. Dov’è la luce? Cercò l’interruttore senza trovarlo. Pazienza. L’orinatoio, se lo ricordava bene, era a destra entrando. E lì svuotò la sua piccola vescica di tutto il suo contenuto.
Il nuovo giorno portò la luce in un dormitorio che l’ammalato era il solo ad occupare. La possente voce del direttore gli pervenne chiara dall’esterno: “Avete un minuto per denunciarvi. Se entro un minuto non avrò il nome del fetente che stanotte ha fatto i suoi bisogni nel mio studio sarete tutti puniti!”
Il bullecco chiese: “Glielo dici?”
“Sono stato io?”
“Sì”.
Il bimbo si alzò, si trascinò fino alla porta del fondo, l’aprì, fece tre passi nella neve e gridò: “Sono stato io!” Fregosi, vedendolo, gridò a sua volta: “Non è vero! Sono stato io!” Il direttore si precipitò sul bimbo che alzava le mani per proteggersi il viso. Ma non sentì sulle guance il calore degli schiaffi, sentì solo quello del petto dell’uomo che ora lo stringeva nelle sue braccia. Prima di sparire nel dormitorio col bimbo e il suo bullecco l’uomo guardò i ragazzini allineati e disse: “Non è stato nessuno! No, non è stato nessuno!” Il bullecco giurò di averlo visto sorridere.
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