lunedì 30 giugno 2008

La missione


La voce al telefono sembrava provenire dalla stanza stessa tanto le parole erano chiare e soppesate, calibrate ad una ad una come fossero di metallo prezioso, come se le loro implicazioni fossero decisive, di vitale importanza . “Lo faccia per tutti noi, come opera di carità”. Opera di carità. Ricordava un sermone nel quale si diceva che non esiste un modo definito per fare la carità al prossimo. E’ possibile farla non solo amando ma anche facendo soffrire, arrecando dolore fisico, nella carne, o affondando la spada nel cuore. Il dare non si esprime soltanto con il gesto della mano tesa, con il sorriso fraterno o con l’ascolto amico. E’ possibile dare con l’arma della distruzione e della riedificazione. E chi riceve non sempre è cosciente del dono che gli viene fatto. Da qui l’ingratitudine. Di questo si stava via via convincendo Orlando Casu che rispondeva alla terza telefonata del “vescovo”, come lo aveva chiamato don Mario, il parrocco della chiesa di San Battista annunciandogli che avrebbe telefonato personalmente per ringraziarlo di un servizio di cui non ricordava nulla.

La prima chiamata l’aveva ricevuta tre giorni prima. Il vescovo non fece nessun riferimento a qualcosa per cui doveva ringraziare il signor Casu. In realtà fu una chiacchierata piuttosto informale, iniziata con i convenevoli di rito: “Come sta? Ho sentito parlare di lei e del suo fervore religioso… Lei è un buon cristiano, mi compiaccio!” La sua principale funzione era di rompere il ghiaccio e portare la discussione su un problema di difficile soluzione. “Conviene che nella nostra città c’è un numero eccessivo di musulmani?” Conveniva. Uscire la notte era diventato una scommessa persa in partenza tanto il suo quartiere brulicava di arabi, quasi tutti provenienti dall’Africa del Nord. Per non parlare poi del suo recente licenziamento… “Sì, questa è politica. Singolarmente non possiamo arginare il flusso prorompente di questa gente. Eppure sono certo che, volendo, qualcosa si possa fare. La somma dei comportamenti dei singoli diventa la cultura dei popoli. Dico bene?” Diceva bene. Ognuno di noi ha un fardello, una missione nella vita e vegliare al suo compimento significa onorare il creatore per avercela donata.

La seconda chiacchierata fu per lui quella decisiva perché fu in quella occasione che il vescovo gli chiese di schierarsi, di prendere posizione a favore o contro la civiltà occidentale cristiana contro la piaga del mondo arabo islamico che aveva invaso la sua città e si stava estendendo su tutto il territorio italiano ed europeo. Dopo tutto che cosa gli costava dichiararsi favorevole alle sue stesse idee? No, non era razzista – il razzismo è peccato – ma bisogna sapere quando si è in guerra. ”Un popolo è già sconfitto quando non s’accorge di essere in guerra. Dico bene?” Anche questa volta diceva bene…
Nella terza telefonata gli furono date le istruzioni…
Mise giù il telefono, accese una sigaretta e cominciò a fissare la parete spoglia e ingiallita da uno spesso strato grasso del suo angolo cucina. Quella notte non riuscì a dormire.

Uscì. Camminò a lungo per le strade del centro storico che gli sembrarono un po’ più affollate del solito. Paradossalmente, non vide nessuno dai tratti somatici maghrebini. Ma si sa, gli arabi non sono mai turisti, neanche i miliardari lo sono, e che vuoi che gliene interessi del patrimonio artistico della tua città? Non sono qui per questo. Era una calda mattina di agosto. Casu sudava come una fontana sotto un solleone impietoso. Si sentiva nell’aria la vacanza, la voglia di non far niente, di godersi la vita all’ombra di qualche monumento mentre un turista comprensivo ti scatta una foto ricordo immortalando per i tuoi discendenti la tua fugace felicità. Avrebbe avuto voglia di fermarsi in un bar per prendere un secondo caffè e un bicchiere di acqua minerale gassata bella fresca. Avrebbe voluto scherzare con gli amici, i pochi amici che gli erano rimasti dopo un’intera vita di malintesi e tradimenti. Aveva però una missione da portare a termine e l’avrebbe portata a termine costi quel che costi.

La moschea era dietro l’angolo. La scorse. Visto da fuori l’edificio non aveva nulla di quelle moschee che si vedono alla televisione. Niente torre, niente muezzin. Si trattava di un grande appartamento al pian terreno che a prima vista poteva essere scambiato per una palestra anche per le numerose scarpe che ne ingombravano l’ingresso. Si tolse le sue che dispose contro un pilastro in modo da poterle ritrovare facilmente una volta uscito. “Lo faccia per tutti noi, come opera di carità”… Entrò nella moschea. Era la prima volta ma non fu sorpreso. Vide come in fondo si aspettava degli uomini in ginocchio in fervida preghiera mentre da una sorta di pulpito l’officiante rivolgeva loro la parola. Esattamente come aveva visto alla televisione.

Sulle prime non successe nulla. Nessuno si era accorto della sua presenza nonostante si sentisse in campo nemico. “Rimanga lì e non si muova! Per nessuna ragione al mondo!” La situazione non tardò a precipitare. I presenti fiutando l’aria cominciarono ad agitarsi. Si guardavano l’un l’altro con fare interrogativo, quasi accusatorio. Qualcuno si alzò, rinunciando all’orazione, per diventare l’inquisitore dei propri vicini. Gli accusatori furono a loro volta accusati e dovettero animatamente difendersi dai sospetti. I toni salivano, le voci erano concitate mentre l’aria stava diventando irrespirabile non tanto per la calura che in quella stanza sembrava decuplicata per il gran numero di fedeli ma soprattutto per quell’odore, quella puzza dei piedi portati in questo luogo sacro da Orlando Casu detto “la Puzzola”. Le discussioni animate divennero urla di rabbia, poi di panico e infine di disperazione. Vi fu un fuggi fuggi generale; la folla come una mandria impazzita si accalcava verso l’unica uscita, troppo stretta e sicuramente non a norma antincendio, un collo di bottiglia che per degli interminabili secondi sembrava invalicabile. Molti furono calpestati dai fratelli che cercavano la salvezza all’esterno.
Casu non aveva nessuna ragione di rimanere in una moschea deserta, perciò si diresse verso l’uscita, ritrovò senza difficoltà le sue vecchie scarpe vicino al pilastro, le annusò lungamente e disse incredulo guardando negli occhi il saraceno inferocito: “Boh!?”

giovedì 19 giugno 2008

Il grande Ofelio


Ofelio Ciroldo Serenz, l’attuale direttore del Circo Maximus, era famoso un tempo. Chi non ricorda le acrobazie volanti del Grande Ofelio? Oggi, però, è un uomo stanco, rotto a tutte le prove e a tutti gli scherzi. Non reagisce alle novità da almeno cinque, forse sette anni. Che gliene importa ormai dell’uomo pizza, del volo pindarico incrociato o della spaccata deviata all’inglese? I clown, che paga profumatamente per non far ridere, sono diventati ai suoi occhi poco meno che dei pagliacci, degli zerbini buoni solo per togliere il grosso dagli scarponi. Gli spettacoli poi non li va neanche più a vedere. Per averne visti troppi, o più verosimilmente per avere superato, e abbondantemente, la sessantina si sente ormai distante dagli applausi sfrenati per dei numeri senza senso e da quel riflesso di meraviglia che fa luccicare gli occhi dei bambini. La sua prostata è passata al primo rango delle sue preoccupazioni; al secondo, ma di stretta misura, il suo apparato digerente. Si dice, scherzando, che è diventato tutto casa e casa, anzi tutto roulotte e roulotte. I suoi spostamenti vanno dalla poltrona al bagno e dal bagno alla poltrona di giorno e dal letto al bagno e dal bagno al letto di notte. Questa sera però c’è stata una novità proprio nel bagno e proprio oggi che è il suo compleanno: da parte e d’altra del water qualche perditempo aveva disposto di nascosto due scarpe enormi da clown costringendo l’immaginazione a figurarsi qualcuno seduto sulla ciambella.
“Se credono di farmi ridere con queste cazzate”, disse tirando fuori il suo arnese e cominciando a servirsene.
“Va bene che non fa ridere, disse l’uomo invisibile lasciando la roulotte, però potevi fare a meno di pisciarmi in testa!”
“E tu ringrazia che non avevo voglia di fare altro!”, rispose acido il direttore.

martedì 10 giugno 2008

L’esiliato





Koronk era d’accordo. Koronk aveva un po’ esagerato e per questo è stato punito. Solo che è sempre vissuto dalla parte del sole e essere esiliato dalla parte buia del pianeta era troppo per lui. Dopotutto un troll è un troll e cose da troll deve fare: urlare, seminare il terrore e schiacciare ominidi. Di questo gli ominidi si devono convincere ma gli ominidi non ne hanno di cuore… Non ricordava come l’avessero portato dalla parte buia perché quando è successo dormiva profondamente sotto l’effetto delle possenti droghe dello stregone Malfug ma avrebbe scommesso una cena a base di code di drago che appunto sono stati proprio loro, i draghi, a portarlo, legato come un pacco, dalla parte buia del pianeta. Dal primo momento il suo unico pensiero è stato “come uscirne?” “Semplice, si rispose, basta camminare verso la parte del sole.” E così fece: camminò. Per non perdere l’orientamento fissava la stella più alta e più brillante della costellazione dell’Unicorno. Camminò a lungo, molto a lungo. Attraversava vallate, scalava montagne, guadava fiumi ma ancora non scorgeva all’orizzonte l’amato astro solare. Non si scoraggiava. Aveva davanti agli occhi i suoi diciassette fratelli e l’orto dove crescevano libere le zucche giganti e questo bastava a non fargli sentire la fatica. Ad un certo punto, ebbe l’impressione di trovarsi davvero nel suo orto. Distingueva nella fiocca luce dispensata dagli astri notturni i suoi contorni, le zucche... Solo che non poteva essere il suo orto perché non poteva stare lì, nella parte buia. A meno che… “Se questo è il mio orto, qui ci dovrebbe essere la mia casa con dentro i miei fratelli”. Si recò nel posto dove presumeva ci fosse la sua casa e la trovò. “Come è possibile? si chiese, non possono avere esiliato anche la mia casa!” Un troll si può esiliare ma una casa e un orto era sicuro di no. Decise che quella non era la sua casa e riprese la sua marcia. Camminò ancora più a lungo, seguendo la stella che non smetteva di fissare. Ben presto, ne era sicuro, si sarebbe di nuovo riscaldato al sole. Se non fosse che era in continuo movimento avrebbe sentito il freddo della parte buia. Forse sarebbe già morto. Ma camminava senza perdersi d’animo, camminava finché non ritrovò dei luoghi che gli erano familiari: la sua casa e il suo orto. Allora cominciò a capire. Il suo era un pianeta senza rotazione quindi se davanti a lui si trovavano davvero il suo orto e la sua casa significava solo una cosa: camminando imprimeva egli stesso il movimento di rotazione al pianeta. Aveva visto una cosa del genere nel piccoli meccanismi che usano gli ominidi per misurare il tempo: una piccola rotella riusciva a fare girare una rotella molto più grossa, esattamente come faceva lui camminando. “Ma allora, si chiese, gli altri come fanno per rimanere nella parte del sole?” “Semplice, si rispose, camminano tutti come me e quando mi fermo si fermano pure loro”. Rise, rise, rise e pianse…

lunedì 2 giugno 2008

I nonni


Se lo sanno tutti che i nonni, quando mangiano le lenticchie e si curvano in avanti, terrorizzano i figli ma fanno la gioia dei nipotini! E lo sapevi che i nonni sono le uniche persone al mondo capaci di spiaccicare una zanzara al muro con un calzino umido come quando erano militari? Altro che Baygon! Non ci vedono, dicono, ma come mai in famiglia sono i soli in grado di far passare il filo nella cruna dell’ago e a non portare gli occhiali? I nonni che quando s’incontrano tra di loro si vantano di appartenere alla "classe di ferro", alla favolosa classe di ferro, anche se ormai sono rimasti solo in due. Cavolo, vai a cercarlo oggi un giovane della classe di ferro se lo trovi! Com’è che si dice? “Nonno Sprint”? I nonni che quando vanno a votare, a fare il loro “dovere”, non vogliono fare brutte figure e si presentano in cabina elettorale con i loro abiti migliori. Si mettono per l’occasione la camicia al sugo oppure la camicia al giallo d'uovo o meglio ancora la quattro stagioni. Per mangiare si legano un tovagliolo al collo e mandano giù gli spaghetti col risucchio, come quando erano bambini. E poi bevono il latte. E' da un secolo che non bevo il latte e ti devo confessare che un po' mi manca. E poi, sai una cosa, i vecchi possono sparare cazzate e parolacce a volontà, perché ormai c’hanno diritto, anche se spesso un rompiballe di figlio gli dice proprio durante i festeggiamenti: "Papà, ti ho detto mille volte che non si dice cazzo!" E se vedono che i figli rompono troppo le balle, i nonni si curvano in avanti e fanno la gioia dei nipotini.