giovedì 29 gennaio 2009

Luri

Il préventorium di Luri nell'alta Corsica ha un posto d'onore nei miei ricordi. Per una volta non voglio scrivere un racconto ma farvi partecipi di alcune scoperte che lo riguardano fatte leggendo qua e là su Internet.

Il Préventorium era in origine un convento di cappuccini, a quanto pare del XVI secolo. Fu successivamente convertito in sanatorio per i tubercolosi e dopo la seconda guerra mondiale in "maison d'enfants" e cioè in centro d'accoglienza dell'infanzia disagiata fino ai primi anni settanta. Attualmente, sussistono solo delle rovine. Unico punto positivo: le rovine sono ancora in piedi, se mi posso esprimere in questi termini.

La bellezza del paesaggio – con la famosa tour de Sénèque (credo costruita dai genovesi) sotto la quale pare fu esiliato il filosofo latino - è un forte richiamo per gli appassionati di trekking che non mancano di farvi tappa. Ho trovato diversi siti di questi addetti della marcia con una doverosa fotografia della torre e, in qualche raro caso, degli edifici del Préventorium.

L'abbandono dei luoghi è probabilmente all'origine di una credenza che mi suona del tutto nuova. Da qualche anno a questa parte si dice che le mura del centro ospitino niente meno che dei fantasmi. Di chi non lo so: la rete tace e non aggiunge nient'altro a questo proposito.

Continuando a frugare tra le maglie ho trovato in un blog una storia che parla di una certa Marie, ospite un tempo del Préventorium, sicuramente dopo di me perché si fa riferimento, senza nominarlo, a Jean-Paul Sermonte, un sorvegliante che ho conosciuto e che vi aveva lavorato intorno al 1970, diversi anni dopo la mia partenza. Questo stesso sorvegliante è ora un poeta abbastanza noto in Corsica. Tornando al racconto dal titolo “Oh, Marie” cito traducendo:

“I lunghi soggiorni nel préventorium di Luri, un vecchio convento, la più alta dimora del Capo Corso. Ai piedi di un’immensa roccia dominata da una torre, la famosa Torre di Seneca. Dei sorveglianti severi. Soprusi. Colpi che piovono. Spesso. Non diceva nulla Marie, si teneva dentro la sua rabbia, costruendo già dalla sua infanzia una cultura del rifiuto. L’odio per gli uomini.”

Il mio vagare mi ha quindi condotto nel sito di un altro uomo di penna, un certo Gérard Tholance, che ha conosciuto nel préventorium, qualche anno prima di me, le durezze dell'educazione di quei tempi. Ne parla in un libro che ha recentemente pubblicato e che non vedo l’ora di leggere. Con questo vi saluto e vi auguro un buon fine settimana.

Ecco i link:
Il racconto "Oh, Marie...":
http://www.les-chemins-de-poussiere.com/article-13257577-6.html
I fantasmi:
http://www.paranormal-fr.net/forum/lieux-hantes-de-corse-t13497.html
Gérard Tholance:
http://profile.myspace.com/index.cfm?fuseaction=user.viewProfile&friendID=394283573
Jean-Paul Sermonte:
http://www.sermonte.net/

venerdì 16 gennaio 2009

La testa

Non sapete che cosa vi perdete voi che avete la testa ben salda sulle spalle! E' vero che la prima volta che me la sono svitata ero un bel po' disorientato: non è facile tenersela sottobraccio stando attento ai mobili o agli spigoli delle porte. Credetemi, però: ci si abitua a tutto, anche a pilotare il proprio corpo attraverso gli ostacoli. All'inizio, lo devo ammettere, mi riempivo di lividi. Al lavoro i colleghi ci scherzavano su chiedendomi se mi avesse pestato mia moglie. Dopo un po', con la pratica, il corpo acquista autonomia e può benissimo fare a meno della testa. I miei familiari, loro, hanno preso questa mia particolarità con filosofia, tanto chi si stupisce più oggi... Ormai vado dappertutto senza la testa: al supermercato, al lavoro, allo stadio. Lo sapevate che si guida benissimo senza? Ho addirittura rinnovato i documenti d'identità con delle fotografie che mi rappresentano con il mio nuovo look. I miei amici forse non li riconoscerebbero più se la indossassi di nuovo.
Quali vantaggi ne traggo? Prima di tutto mi sento più leggero. Tra una cosa e l'altra una testa pesa ben sette chili. La notte la lascio alla finestra per vedere se riesco a cogliere sul fatto chi da qualche tempo si accanisce sulla mia macchina che parcheggio sotto casa. Allo stesso modo sorveglio la mia abitazione quando sono via controllando che tutto sia a posto: le luci, il gas, il gatto. Vi chiederete a questo punto perché non la butto e mi prendo una videocamera così faccio prima. Il fatto è che sono nostalgico. Mi piace, quando sono solo e nessuno mi può vedere, rimettermela sulle spalle per ricordarmi com'ero, davanti allo specchio, e, trovandomi, premere qualche punto nero del naso.

venerdì 9 gennaio 2009

GR20

Il Chemin de Grande Randonnée che attraversa l’isola di Corsica, noto come il GR20, è considerato dai marciatori un vero e proprio pellegrinaggio che almeno una volta nella vita bisogna intraprendere. E’ un’esperienza spirituale unica, pari a quella che puo essere vissuta lungo la via lattea, tra le estrellas, verso il santuario di San Giacomo di Compostela. Partendo da Conca, a sud, è subito il granito rosa delle Aiguilles de Bavella, vere e proprie cattedrali gotiche su un verde sagrato di pini laricci, con in cima ad una delle guglie una madonnina bianca che sembra benedire chi si avventura per quei pervidi sentieri spesso sopra i mille metri di altitudine. A destra, a sinistra, tutt’intorno, una natura maestosa nelle sue montagne diventa spaventosa in fondo ai suoi dirupi, dolce nei suoi colori, clemente nel suo cielo, crudele nell’arsura del sole e pietosa nella frescura dei suoi laghi e nell’ombra delle sue foreste. Quella di Vizzavona, dopo Bavella, è popolata da antiche leggende che Antò Pietrucci, insegnante di lettere e appassionato di mazzerismo, conosce perfettamente per averle studiate per quasi tutta la vita. Si trovava con l’amico Gilles Andreani in uno di quei refuge disseminati lungo il percorso e nei quali è possibile cucinare, dormire e ripartire all’alba rinfrancati. Gilles era un uomo di cinquantatré anni ma ancora giovanile nell’aspetto e dai modi gentili. Abitava a Bastia dove gestiva un piccolo negozio di stoffe da cui a suo dire non ricavava a sufficienza. Gli capitava di lamentarsi delle donne di oggi che non hanno più il tempo per cucire, né saprebbero farlo, preferendo comprare dei vestiti già confezionati e imposti dalla moda. Erano anni che pensava di affrontare questo lungo viaggio di quindici giorni lungo la spina dorsale dell’isola, preparandosi mentalmente e equipaggiandosi di zaino, sacco a pelo, cappellino a visiera, scarponi e vestiti adatti, ma ogni volta un imprevisto l’obbligava a rinunciarvi, tanto che la moglie, Judith, non perdeva un’occasione per ironizzare. « Ce la farai prima di morire ? » soleva chiedere con un sorriso beffardo. La derisione può abbattere un uomo, fargli rinunciare a qualsivoglia progetto abbia in mente, ma può anche essere uno sprono, provocare una reazione per non darla vinta al proprio detrattore. Fu così che Gilles, all'inizio di un estate che prometteva di essere rovente, cominciò a tempestare Antò di telefonate. A dire il vero Antò Pietrucci non si fece troppo pregare : cedette al terzo giorno e promise che appena si sarebbe liberato degli alunni e di qualche imprecisato obbligo familiare sarebbero partiti.
Il rifugio poteva offrire l’ospitalità ad una decina di persone disponendo i sacchi a pelo nel senso della larghezza dell’unica stanza e stringendosi un po’. Quella sera, però, c’erano solo loro due. Consumarono velocemente alcune delle scatole di carne che si erano portati appresso, uscirono e s’inerpicarono su un alto scoglio per gustarsi il loro primo tramonto. Rimasero a lungo senza parole davanti a un quadro che riuniva sulla tela tutte le sfumature del giallo, dell’arancione e del rosso. Ebbero la sensazione che Dio, oltre che avere creato l’universo, lo avesse pure dipinto.
« Dimmi delle leggende », chiese Gilles.
« Ce ne sono tante ! », puntualizzò Antò.
« Parlami delle streghe, le mazzere ! »
« Le mazzere », cominciò Antò, « sono delle persone come te e me che vivono normalmente di giorno ma la notte escono di casa e vanno a caccia di anime. »
« Tu ci credi ? »
« Certo che no ! », si difese Antò, « E’ roba che appartiene al passato. Sono delle superstizioni dei nostri nonni, niente di più .»
« Ma tu », insisté Gilles, « non hai un mazzeru nella tua famiglia ? »
« Mai detto di avere un mazzeru nella mia famiglia ! Forse stai parlando di mio nonno murtulaghjiu ! »
« Non è la stessa cosa ? »
« No, non è la stessa cosa. I mazzeri uccidono. Sono per lo più delle vecchie donne che come la dea Diana, con una muta di cani, inseguono e uccidono queste povere persone durante delle battute notturne nella macchia e nei boschi. Si dice che fanno delle boscate – dei raduni in boschi e foreste per intenderci – durante le quali mangiano carne umana. »
« Delle foreste come questa ? »
« Sì, come questa… Ma sono solo delle leggende… I murtulaghji, invece, sono degli uomini il cui spirito, mentre dormono, lascia il loro corpo per annunciare a un moribondo che sta per morire. »
« Tuo nonno era davvero un murtulaghjiu ? »
« Lo dicevano in paese e pare che qualche volta sia apparso a delle persone apparentemente sane che poi sono morte pochi giorni dopo. Il murtulaghjiu non è cattivo, insomma. In qualche caso fa da tramite con l'aldilà trattando con la Morte e riuscendo a ottenere qualche giorno o solo poche ore di vita in più per chi deve lasciare il mondo dei vivi. »
« Beh, questo mi rassicura… »
« Dài ! Non dire che avevi paura di me ! »
« Stavo scherzando, scemo ! »
E ridendo i due amici rientrarono nel rifugio. Antò si addormentò quasi istantaneamente non appena si fu infilato nel morbido sacco a pelo ma Gilles, nonostante la stanchezza per i chilometri percorsi, non trovò subito il sonno. La sua conversazione con Antò lo aveva turbato. Aveva ancora davanti agli occhi un tramonto che gli sembrava ora come carico di presagi funesti. Si chiese se tra quegli alberi quella notte qualcuno sarebbe stato ucciso dalle streghe. Si mise in ascolto della foresta tendendo l'orecchio a qualche latrato lontano o all’urlo agghiacciante di un uomo che muore. Gli parve di sentire i cani abbaiare ma forse era la sua immaginazione, soltanto la sua immaginazione. Accidenti all'amico e alle sue stupide storie !... Si addormentò all'alba, una smorfia di dolore sulle labbra.
I gendarmi arrivarono in elicottero. La porta essendo stata chiusa dall’interno con ancora la chiave inserita si rese necessario sfondarla. Sua moglie confermò che solo era partito e solo era andato incontro alla morte.

mercoledì 7 gennaio 2009

Primo giorno di scuola

La scuola era situata in Carughjiu sumerà, in lingua corsa la via dei somari, al primo piano di un vecchio palazzo che ne contava tre. Ai lati del portone d’ingresso pendevano malinconicamente due anelli di ferro a cui anticamente venivano legate le briglie di quei poveri animali. Mia madre, forse più impaurita di me, mi accompagnava al mio primo giorno di scuola stringendomi forte la mano. Salimmo il cuore in gola una rampa di scale irregolari fino a due gradini da un pianerottolo già riempito da una moltitudine di mamme e bambini della mia età. Mi abbracciò forte come se non fosse convinta di fare la cosa giusta consegnandomi alla maestra: una volta varcata la soglia dell’aula scolastica avrebbero inflitto a suo figlio le terribili torture delle “coniugazioni” e della “grammatica”. Credo che tutti ne fossero coscienti su quel pianerottolo e i bambini in particolare i quali tentavano il tutto per il tutto per dissuadere delle mamme inspiegabilmente insensibili e sorde alle loro implorazioni: piangevano, urlavano, si aggrappavano, puntavano i piedi, si gettavano a terra. Invano perché le persone di cui più si fidavano al mondo li avevano ceduti allo Stato.
Non so dove trovai la forza, o forse fu soltanto rassegnazione, ma, una volta baciata la mamma e giurato che avrei fatto da bravo, silenziosamente, attraversai quella fitta folla andandomi a sedere all’ultimo banco di un’aula ancora vuota, buia e triste. Rimasi lì a guardare lungamente la lavagna, la cattedra sulla sua predella e, sulla cattedra, una bacchetta di legno. Ebbi improvvisamente voglia di fuggire, di farmi strada tra le mamme che spingevano, trascinavano, pregavano, minacciavano, abbracciavano e consolavano dei bambini inzuppati di lacrime. Quanto desideravo ripercorrere all’incontrario le poche centinaia di metri che separavano la scuola dei somari da casa, aprire la porta, correre verso mamma, buttarmi nelle sue braccia e farle giurare che mai più mi avrebbe abbandonato!
Sarebbe stato facile andarmene. Nessuno, ne sono certo, se ne sarebbe accorto, ma non ebbi il coraggio di lasciare la scuola finché ero ancora in tempo, finché ero ancora libero. Quell’errore lo pagai per tutta la vita perché da quel giorno la scuola non mi lasciò più. Fu quindi per vigliaccheria che andai incontro al mio destino diventando ventitré anni dopo insegnante di francese.