domenica 19 dicembre 2010

In che modo ho scoperto come nascono i bambini

Ci sono arrivato per ondate successive di scoperte personali e di spiegazioni di amici o scolastiche. Sapevo insomma che gli animali si dividevano in ovipari e mammiferi. Quest'ultima parola mi metteva un po' di paura perché per assonanza o altro (vai a sapere che cosa passa per la testa dei bambini) l'associavo ad animali enormi pieni di latte. Guarda caso a scuola ci insegnarono, insistendo pure sul concetto, che le balene sono niente meno che dei mammiferi.
Fin qui ci arrivavo: per quanto sorprendente la balena è un mammifero, ok. Ma niente mi preparò alla vile insinuazione di un amico che mi disse quasi ridendo che le donne sono a loro volta dei mammiferi e cioè delle balene. In un certo senso potevo anche non sentirmi parte in causa in questa storia perché il mio amico aveva detto che le donne sono dei mammiferi e non gli uomini - ero salvo insomma - ma destino volle che avessi come tutti gli altri una mamma e quel mio amico diceva che mia madre è una balena.
Ma non fu solo questa scoperta a rendermi la vita un inferno. Il fatto è che eravamo in attesa di un fratellino - o di una sorellina - e da quel giorno ci fu una terza possibilità: mio fratellino o mia sorellina poteva essere una piccola balena a sua volta e già l' immaginavo che nuotava e spruzzava acqua nell'acquario in camera dei miei.
Il resto l'ho scoperto grazie a quel libro proibito nascosto nell'ultimo ripiano della libreria di casa.

La triste storia di Adele Fiori

Ascoltate signore e signori, ascoltate la triste storia di Adele Fiori su cui la sorte crudele ha scatenato le sue ire e lanciato tre bombe a mano. Mi ascolti? Sì, ti ascolto. Ah, credevo che non mi ascoltassi. Venite farfalle, venite gente, avvicinatevi prego. Basta così. Ascoltate la triste storia di Adele Fiori che incontra l’amore e che dall’amore viene tradita. Prima: ciao amore come stai? Bene? Sì, bene, grazie. Dopo: sono triste e sola e poi non ti amo più. Crollano i palazzi, si spaccano i cuori, il cibo fa schifo, ha voglia di vomitare. Sei incinta? No. Signore e signori, non si amano più. Non si amano più ma dormono nello stesso letto. Dormono, si fa per dire perché lei fa degli incubi. Sogna dei calamari e dei polpi giganti e poi si sveglia in piena notte. Non dirmi che sei diventato un polpo gigante e che stai per mollare l’inchiostro nel letto! Non lo sopporterei, ne morirei! E invece sì. Ma non è inchiostro: è gas asfissiante! Che puzza! Se non vi interessa la mia storia andatevene pure, staremo meglio soli. Sì, gas asfissiante e Adele Fiori non voleva morire asfissiata. E’ inverno. Lo so che siamo in estate. E’ inverno nella storia. Apre la finestra e si spinge più all’infuori che può. Ora sono due le puzze: quella di scoreggia del marito e quella della mondezza nella strada. Adele Fiori preferisce la puzza della mondezza. Vola giù. Per un attimo batte pure le ali e immagina di essere una rondine di primavera. Per quelli dell’ultima fila che non l’hanno capita: Adele Fiori muore. I vulcani eruttano, scoppiano le bombe atomiche, scappano i topi, piangono gli animali della foresta. Il marito, che è stato svegliato dalla propria scoreggia, si gratta e dice: non ho neanche bisogno di divorziare. La storia è finita. Se vi è piaciuta, bene, altrimenti peggio per voi, vuol dire che non vi piacciono le mie storie.

domenica 12 dicembre 2010

Nuovo metodo pratico per superare la velocità della luce


Lo abbiamo messo in pratica con ottimo successo nei nostri centri operativi dopo un numero limitatissimo di sperimenti a sottolineare la precisione dei dati dei nostri elaboratori e la giustezza delle nostre teorie. L’utente domestico non avendo, ovviamente, la stessa dotazione di attrezzature del nostro Centro né disponendo di ampi finanziamenti pubblici e privati, può procedere come segue:
1.       Disporre su rotaie perfettamente rettilinee e dalla lunghezza totale di 20 chilometri un vagone  vuoto lungo 1000 metri che chiameremo vagone A;
2.       all’interno del vagone A impiantare delle rotaie su tutta la lunghezza del vagone;
3.       collocare su queste rotaie un vagone – vagone B – dalla lunghezza di 50 metri in scala cioè di 1/20;
4.       ripetere all’interno del vagone B le operazioni 1 e 2 in maniera da ricavare il vagone C;
5.       supponendo che la velocità raggiungibile da ogni vagone sia di 1000km/s si dovranno ripetere le operazioni 1 e 2 per ben altre 298 volte in modo da ottenere 300 vagoni l’uno nell’altro;
6.       a questo punto con un solo telecomando far partire i vagoni contemporaneamente. In base alla teoria della relatività ristretta le velocità dei vagoni si sommeranno permettendo al vagone più piccolo di raggiungere poi superare la velocità della luce che è, come ben sapete, di        299 792,458 km/s;
7.       frenare.

venerdì 3 dicembre 2010

Luogo comune

E’ tempo di sfatare il luogo comune che i fulmini cadano più volentieri sui bagni degli uomini che su quelli delle donne. Gli argomenti che più spesso si adducono a sostegno di questa teoria sono, in primo luogo, che l’uomo rimane generalmente in piedi per espletare le sue funzioni corporali mentre la donna è sempre seduta e, in secondo luogo, che essendo provvisto naturalmente di parafulmine è più facile che venga colpito dalle saette. Il fatto è che questa tesi parte dalla considerazione errata che tutti gli uomini sguaino per l’occasione una ferramenta da moschettieri. La verità è ben diversa da questa immagine trionfale dell’uomo: con l’andare degli anni, con lo stress,con i fattori ansiogeni, e chi più ne ha più ne metta, l’armamentario maschile rassomiglia sempre più a una messa a terra e costituisce quindi per il suo portatore più una protezione che un pericolo.

Psicologia della raccolta differenziata

Nel nostro quartiere, la domenica e il lunedì il servizio di nettezza urbana non effettua nessuna raccolta dei rifiuti. Così il martedì mattina l’umido è grasso e scoppia di salute come un maiale da macellare. Il secco del mercoledì è abbondante per le stesse ragioni e allegro straripa dai secchi e dalle buste. L’umido del giovedì è sobrio, contenuto, in pace con se stesso. Il venerdì è la volta del vetro, dell’alluminio e del ferro che dignitosi e disciplinati aspettano il loro riciclo. La mattina del sabato si butta tutto, tutto, e la mondezza di quel giorno è gravida delle promesse di un giusto riposo.

domenica 28 novembre 2010

L’uomo del Correboi








Sebbene l’area geografica della presente ricerca sia sostanzialmente circoscritta al paesino ogliastrino di Fluminimattzai e al passo montanaro del Correboi che lo sovrasta, la nostra indagine coinvolge tutti i paesi del circondario accomunati dalle leggende, le abitudini e le superstizioni che si rapportano al cosiddetto Uomo del Correboi e che dalla convinzione della sua esistenza sono state originate. Proponiamo ai gentili lettori del Journal una prima parte del nostro studio che per motivi di spazio non possiamo pubblicare integralmente in questo numero e abbiamo quindi suddiviso in quattro articoli mensili. Di prossima pubblicazione le poesie e le canzoni barbaricine e ogliastrine, poi gli amuleti e i riti magici intorno all’Uomo del Correboi.


Gli avvistamenti:

Le testimonianze de visu dell’esistenza dell’Uomo del Correboi consistono  principalmente negli avvistamenti del commerciante inglese, sir Harry Scott, e del pastore Franco Prunedda di Fluminimattzai. Di queste ci rimangono alcune righe in un diario di viaggio e un articolo del quotidiano isolano, l’Unione Sarda.
Riguardo al primo avvistamento attingiamo dal diario dello stesso Scott [Note di un commerciante inglese nell’Isola di Sardegna, Andrea Giusti ed. Firenze, 1853]che ne precisa la data: venerdì 23 aprile 1852. Citiamo: “Il nostro convoglio, scrive lo Scott, costituito da una vettura e da 20 carri carichi di prodotti alimentari e di artigianato isolani, quali mobilia di castagno e vasellami, proveniva dalla città di Nuoro e si accingeva ad attraversare il noto passo del Correboi in direzione della cittadina di Lanusei e successivamente del porticciolo di Arbatax dove era ancorato lo steamer Proudly King. Era una bella giornata primaverile e niente faceva presagire l’incontro che mi accingo a descrivere. Uno dei nostri cocchieri, Angelo Artitzu, in preda all’agitazione, porgendomi il proprio cannocchiale mi indicava una figura umana su uno sperone di roccia distante circa 250 metri. Incuriosito, presi immediatamente il cannocchiale e guardai nella direzione indicatami dal signor Artitzu. Non è raro scorgere dei pastori in quelle vicinanze ma l’uomo che mi apparve, sempre che di uomo si trattasse, sicuramente non era un pastore: non indossava alcun vestito e mostrava una pelle completamente bianca in gran parte ricoperta da abbondante peluria bianca, una lunga capigliatura bianca o bionda e una muscolatura poco comune. La sua statura, da quanto potessi giudicare a quella distanza, poteva essere stimata tra i 190 e 210 centimetri. Quel che maggiormente mi sorprese non furono tanto le sue fattezze, che per quanto insolite potevano avere una spiegazione razionale, quanto le sue prodigiose abilità motorie. Come se avesse capito che a nostra volta lo stessimo osservando si mise a correre ad una velocità che nessun umano potrebbe eguagliare in quegli impervi sentieri e a saltare da una roccia all’altra come solo i mufloni dell’isola sanno fare. Lo potei seguire, anche se con qualche difficoltà, per almeno due minuti nelle sue straordinarie acrobazie finché non scomparve del tutto alla nostra vista.” Scott non aggiunge altri dettagli a quell’appunto di viaggio e non risultano cronache dell’epoca che abbiano ripreso l'argomento.

Il secondo avvistamento risale a soli dieci anni fa, il 19 marzo 1890 e se ne ha notizia in un articolo dell’Unione Sarda, giornale fondato soltanto un anno prima, che riproduciamo qui di seguito nelle sue linee essenziali:
 “Pastore muore dallo spavento
Mercoledì scorso, si legge, il tranquillo paese di Fluminimattzai è stato brutalmente svegliato alle prime ore del mattino dalle grida di spavento di un certo Franco Prunedda, noto pastore del villaggio. Il Prunedda, molto probabilmente, dormiva nel suo ovile nel pressi del passo del Correboi, quando è stato svegliato da qualcosa, o qualcuno, che lo ha terrorizzato. L'uomo si è dato alla fuga, correndo senza sosta fino a raggiungere il paese. La gente del posto, ce lo descrive come un uomo piuttosto coraggioso, che non temeva né la vita solitaria nel suo ovile né la spietatezza dei suoi simili. Ma che ci poteva essere di tanto orrendo nel Correboi da mettere paura al pastore? Purtroppo non possiamo dare una risposta certa a questa domanda perché lo stesso Prunedda non è sopravvissuto più di un giorno alla sua triste avventura e fino al momento della sua morte non fu più in grado di parlare. Sembra tuttavia che proprio sul punto di morire sia riuscito a proferire all’orecchio della moglie queste testuali parole: S’Omu de Arrescottu. Ora, secondo una credenza locale di Fluminimattzai, s’Omini de Arrescottu, l’uomo di ricotta, è un essere leggendario, che vive nei monti del Gennargentu e si nutre delle mucche e delle pecore che liberamente pascolano in quelle montagne. Le ultime parole del Prunedda sono state a loro volta causa del terrore che da tre giorni imperversa tra gli abitanti del paese quasi si fossero riproposti i tempi bui del Medioevo con le loro streghe e i loro stregoni.” [L’Unione Sarda, 22 marzo 1890] L’articolo prosegue prendendo le distanze se non denigrando questo genere di credenze, che definisce “indegne di un secolo che sta per finire all’insegna della scienza”, e ipotizza una più verosimile vendetta alla quale sarebbe momentaneamente sfuggito il povero uomo rafforzando questa supposizione con alcune testimonianze raccolte tra i parenti e i conoscenti della vittima.
L’ipotesi del giornale non ha mai avuto nessun riscontro oggettivo, e gli autori della presunta aggressione non sono mai stati individuati né la vicenda ha avuto un proseguo in qualche faida famigliare. Lasciamo quindi all’autore dell’articolo, Pietrino Zuddas, la responsabilità delle sue opinioni ma gli siamo grati per avere fatto riferimento per la prima volta in un giornale all’uomo del Correboi, oggetto esclusivo della presente ricerca di interesse antropologico, etnologico e più generalmente scientifico.

Chi o che cosa hanno visto esattamente sir Harry Scott e il signor Prunedda a trentotto anni di distanza l'uno da l'altro? Trattasi di un essere favoloso o più semplicemente di un uomo con caratteristiche fisiche particolari ma comunque umane? Non si possono ancora dare delle risposte a tali quesiti ma della vicenda sono rimaste delle interessanti tracce sul campo.
Invitati dalla Royal Society a raccogliere e a studiare quanto più materiale fosse possibile sull’argomento, ci siamo recentemente recati, io e la mia consorte, Mrs. Maria Fadda Johnson, nel villaggio di Fluminimattzai, dove siamo stati confortevolmente ospitati dalle signore Pau Elmina e la cognata Pistis Marta. Ringraziamo quindi queste signore per la loro generosa ospitalità e per le meravigliose leggende che ci hanno raccontato e che offriamo per la prima volta ai nostri lettori i quali non mancheranno di cogliere delle corrispondenze tra le caratteristiche fisiche dei protagonisti e quelle dell'Uomo del Correboi descritte dal commerciante inglese. Precisiamo che le signore Pau e Pistis, entrambe vedove, hanno rispettivamente 60 e 61 anni e che non hanno mai sentito queste leggende prima di avere compiuto dieci – dodici anni di età. Supponiamo quindi che queste abbiano avuto origine successivamente, forse anche conseguentemente, all’avvistamento del commerciante inglese sir Harry Scott. Riteniamo, inoltre, che l’appellativo con cui è localmente noto l’Uomo del Correboi, “s’omini de arrescottu”, letteralmente “l’Uomo di Ricotta”,  sia una storpiatura de “s’omini de Harry Scott” e cioè “l’uomo di Harry Scott”, termini con i quali veniva inizialmente designato quell’essere straordinario che la fertile immaginazione popolare ha collocato a metà strada tra il mito e la realtà.


Le leggende:

Leggenda 1 [Raccontata dalla signora Pau Elmina di Fluminimattzai in data 22 agosto 1900]:

“C’era una volta un povero ragazzo afflitto da una pelle e capelli bianchissimi fin dalla nascita. I suoi quattro fratelli, che si ritenevano più fortunati perché nati tutti bruni, lo prendevano spesso in giro sia in famiglia che davanti agli estranei. Albino, così si chiamava il ragazzo, era molto triste. Non parlava con nessuno e nessuno voleva parlare con lui, neanche i genitori i quali si vergognavano di avere un figlio “bianco come un morto”, come dicevano. Albino rimaneva spesso da solo, mangiava da solo, spesso i resti dei piatti dei fratelli, e dormiva da solo in un lettino scomodo sistemato in soffitta, a cui si accedeva da una disagevole scala a pioli, come la roba che non serviva più ma di cui la famiglia non aveva il coraggio di disfarsi. Desiderava solo una cosa: morire ma non sapeva ancora che la vita è il dono più prezioso che Dio ci abbia dato. Una mattina, i suoi fratelli, che avevano la pessima abitudine di rubare nelle case dei loro compaesani, avendo appreso che il mugnaio del paese si era recato col suo asino nel paese vicino per prendere dei sacchi di grano e che non avrebbe fatto rientro quella notte, si riunirono in cucina per preparare un furto di farina nella sua casa. Albino, che fu svegliato dal vocio dei fratelli si alzò dal letto e scese in cucina dove li supplicò di non andare ma i fratelli non gli volevano dare ascolto. Così, al crepuscolo, il ragazzo decise di accompagnarli nella casa del mugnaio per cercare di dissuaderli fino all’ultimo momento. Forzarono la serratura ed entrarono chiudendo la porta dietro di loro. Trovarono come speravano dei sacchi pieni di farina che dovevano solo caricare sulle loro spalle prima di uscire. Cosa che fecero ma questa volta la serratura della porta giocò loro un brutto scherzo: si rifiutava ostinatamente di aprirsi. Provarono per ore e ore ma non c’era niente da fare: la serratura non si sbloccava. Non c’era altro modo per uscire: in quella casa, per misura di sicurezza, non c’erano finestre. Decisero così di dormire sui sacchi di farina e di attendere la mattina il ritorno del mugnaio a cui avrebbero raccontato di essere entrati in casa sua per comprare la farina. In un modo o nell’altro sarebbero usciti da quella casa. Così si sdraiarono sui sacchi e si misero a dormire. Quella notte però la Morte passò da quelle parti e non essendoci serratura che le sappia resistere entrò. Vedendo i ragazzi bruni tutti infarinati pensò: “Questi mi vogliono ingannare dandomi da credere che sono già morti.” Poi, guardando il giovane Albino e constatando che la sua pelle era effettivamente bianca anche dopo avere spazzolato con la sua veste la farina disse: “Non mi ricordo di avergli portato via la vita ma questo mi sembra già morto.” Così lo lasciò vivere portandosi via solo le vite dei suoi fratelli. Uscendo lasciò la porta aperta. Quella mattina Albino svegliandosi vide i corpi dei fratelli. Pianse su di loro e recitò una preghiera affidando le loro anime a Dio. Accorgendosi poi che la porta era aperta uscì. Da quel giorno Albino amò la vita e ritrovò il sorriso.”

 Leggenda 2 [Raccontata dalla signora Pistis Marta di Fluminimattzai in data 24 agosto 1900]:

“Il re del Gennargentu ha ormai raggiunto l’età in cui gli uomini devono prendere moglie. Riunisce i saggi del suo Regno per prendere consiglio da loro. La dama che avrà l’onore di essere scelta dal nostre re, dice un vecchio saggio ogliastrino, non solo deve essere la dama più bella tra tutte ma possedere a sua volta le qualità di una grande regina. Dalle prove emergono i caratteri e le doti, continua il vecchio. Il re faccia sapere a tutte le donne del reame che allo scadere del mese sposerà quella che si presenterà con il velo da sposa più lungo.
La decisione del re fu proclamata in ogni angolo del suo immenso regno in modo che nessuna donna la potesse ignorare. Così le famiglie più ricche della Sardegna comandarono alle sarte, poi a tutte le altre donne in grado di cucire e ricamare, di confezionare per la loro donna in età da matrimonio, il lungo velo da sposa che le avrebbe assicurato le nozze reali. Non sempre le decisioni dei sovrani sono giuste, soprattutto quando concedono solo ai ricchi e tolgono ogni speranza ai poveri. A questo pensava Nevina, la bella figlia del calzolaio, che aveva appreso dalla defunta madre a cucire e a rammendare. Ora contribuiva con le sue compaesane a preparare il velo della ricca Angelina Porcu. Non è giusto, ripeteva tra sé e sé, Angelina, o una come lei, diventerà la regina del Gennargentu, ma nessuna di queste, ne sono certa, ama il re come me. Nevina amava in gran segreto il re dal giorno che la famiglia reale venne in paese a chiedere di un calzolaio capace di fabbricare delle scarpe comode per un vecchio cortigiano a cui il re era molto grato per avergli salvato la vita. Siccome il padre di Nevina era l’unico calzolaio del paese, bussarono a casa sua. I giovani si guardarono e subito la ragazza sentì qualcosa di strano in lei. Era il suo cuore puro che aveva cominciato a battere per quello del suo re. Non potendo pretendere di essere ricambiata dal suo sovrano, Nevina cercò di dimenticare soffocando il suo amore nel duro lavoro quotidiano. Il giorno delle nozze stava ormai arrivando, il velo era pronto e per lei non c’era nessuna speranza. L’indomani avrà come regina una donna come Angelina Porcu, ricca e superba ma col cuore arido come i giorni di siccità.
Ma Nevina aveva un’amica. Era un’amica che conosceva e poteva vedere solo lei. Le parlava la notte, quando tutti dormivano e si poteva confidare. Quella notte la sua amica le disse: “Non ti arrendere! Non smettere di sperare! Domani recati da sola sulla vetta più alta del Gennargentu, fai una preghiera e aspetta!” Nevina non capì perché la sua amica le avesse sussurrato queste parole ma nonostante questo si promise di seguire il suo consiglio. Si addormentò e sognò di trovarsi alla corte del re e di portare il velo da matrimonio più lungo. Il re le sorrise, disse di ricordarsi di lei, e la scelse tra tutte.
Al suo risveglio Angelina Porcu riunì tutte le donne e le ragazze che avevano cucito e ricamato il velo ordinando loro di sostenerlo mentre avrebbe sfilato nel palazzo reale. Quale non fu la sua collera quando si accorse che Nevina non si trovava tra le sue damigelle! La fece cercare dai suoi sottoposti ma di lei nessuna traccia.
Nevina aveva fatto come la sua amica le aveva detto. Si trovava sulla cima più alta del Gennargentu e guardava le carrozze arrivare alla corte del re. Il re le accoglieva ad una ad una personalmente sul viale di accesso al palazzo. Qualcuno fece notare: “Sire, nevica sul Gennargentu!” Per quanto insolito per il mese di aprile il re vide che effettivamente stava nevicando sulla cima più alta della Sardegna. Poi, accorgendosi che sulla vetta c’era una donna, chiese di chi si potesse trattare. “E’ Nevina, disse un cortigiano con un lungo cannocchiale, la figlia del calzolaio.”
Continuava a nevicare. Nevicò così tanto che il monte si coprì di un velo nevoso facendo sembrare la bella Nevina una giovane sposa con un immenso velo da matrimonio. Il re riconobbe in Nevina la ragazza che da tempo amava e che finalmente poteva sposare.”

Leggenda 3 [Raccontata dalla signora Pau Elmina di Fluminimattzai in data 22 agosto 1900]:

“Il pastore Carmine Brundu e la moglie Franca Spissu sono sposati da cinque anni ma non hanno figli. Una notte la moglie sogna di un bambino fatto tutto di ricotta che segue il marito e si comporta come se ne fosse il figlio. A un certo punto il bambino si rivolge a lei dicendole: ‘se davvero vuoi un figlio dì a tuo marito di seminare a cipolle il campo di Satt’e Idda.’ Tutti sanno che quel campo è sterile e non ha mai dato frutti a causa della maledizione della più malvagia tra le coghe, Maria Malitengas. Che il campo di Satt’e Idda potesse produrre delle cipolle sembrò tanto assurdo alla signora Spissu che se ne stette in silenzio e non disse quindi nulla al marito. Un mese più tardi fece lo stesso sogno ma questa volta il bambino di ricotta l’implorava di fare quanto diceva e fu così commovente da svegliarla tra le lacrime. La signora svegliò allora il marito e piangendo gli raccontò del sogno. L’uomo si alzò, si vestì in fretta, prese i suoi strumenti da lavoro e uscì di casa. Arò e seminò il campo maledetto il giorno stesso. Alcuni mesi dopo, quando videro le prime piantine spuntare poi le belle cipolle dorate, la coppia si mise a sperare. Un giorno la signora Spissu s’accorse di essere in dolce attesa. Nacque un bel bambino biondo che era lo specchio della salute.”

Le signore Pau e Pistis, oltre ad averci aperto le loro case e a raccontarci le leggende riportate, si sono offerte di assisterci, il sottoscritto e consorte, in tutte le necessità che la nostra permanenza implicava. Così ci siamo visti preparare ogni mattina un’abbondante colazione con latte di pecora appena munto, marmellate e dolci tradizionali fatti espressamente per noi. Dire che il pranzo e la cena erano copiosi sarebbe riduttivo e sarebbe altrettanto riduttivo affermare che erano anche eccellenti. Ci è parso, a me e alla mia signora, che queste squisite persone facessero a gara per offrirci quanto di meglio sapevano cucinare. Oltre che per la loro ospitalità siamo loro riconoscenti per averci presentati ai loro compaesani e in particolare ai pastori Alfio e Bruno Prunedda e alla signora Bonacatu Sitzia, rispettivamente figli e vedova di Franco Prunedda, di cui abbiamo raccolto le interessantissime testimonianze che pubblicheremo nel prossimo numero.
Se la nostra inchiesta ci condusse fino a quel punto a fare la conoscenza di numerose persone indirettamente implicate nella vicenda che ci occupava quale non fu la nostra sorpresa nell’essere presentati, all’occasione di una passeggiata serale  sulla piazza del paese, al cocchiere Angelo Artitzu che fu uno degli avvistatori dell’Uomo del Correboi, se non addirittura il primo. Il signore Artitzu è un signore robusto e, a quanto disse egli stesso, apparentemente con una punta d’orgoglio, ancora dotato di buona vista nonostante l’età molto avanzata. La sua testimonianza coincide in tutto e per tutto con quella di sir Harry Scott tranne che per un interessantissimo particolare.
“Era un uomo muscoloso, alto, forse più di due metri. Aveva una capigliatura e una folta peluria bianche. E’ probabile che nonostante fosse grande e forte avesse paura di noi perché, a un certo punt,o si mise a correre e a saltare tra le rocce come per scappare. La cosa che più mi ha colpito non era tanto che riuscisse a farlo con tanta agilità, cosa che tutto sommato sanno fare anche i pastori, ma il fatto che ogni tanto più che correre o saltare sembrava che ballasse. Così:”
Il signor Artitzu, per dare corpo alle sue parole, si era alzato, fatto largo tra la folla che nel frattempo si era raccolta intorno a noi, e intonando una sorta di dillu molto ritmato eseguì, presto imitato da tutti i presenti, compresi il sottoscritto e consorte, i complessi passi di quello che a Fluminimattzai tutti chiamano su baddu ‘e s’arriscottu trasformando di fatto un’intervista con tutti i crismi della ricerca scientifica in una festa di paese che, tra balli, musiche e canti, proseguì per tutta la notte.

Henry Donald Johnson

(Journal of the Royal Society, n° 76 del 24 maggio 1900)

venerdì 26 novembre 2010

Mi faresti un favore?

Mi faresti un favore? Non per altro: è che non so mai se sei tu o se bussano alla porta. Lo so che tutti i conigli lo fanno e visto che sei un coniglio lo fai anche tu ma, la notte, mentre dormo, potresti evitare di battere le zampe?

lunedì 22 novembre 2010

Problemino

Ecco, quando penso a Olbia, mi viene da parluri in galluresu. Siccumi il galluresi non lu conoscu mi viena da purlori unu galleresi chi non esiste. Chiedo perciò ai moderaturi una poca di pazienzu. Ora mi sta passando. Ve l’ho detto: mi succede solo quando penso ad Olbia.


Allori, la storia est questu. Sono anduto in unu albergo di quella città, unu albergu di tre stelli, normali. Così mi sembruvu. Appena arrivato, ho misso i bagagli sopra il letto e mi sono precipitato in bagno perché con un’influenza intestinale c’è poco da scherzare. Non vi dico cosa è successo a un mio conoscente che si era intestardito a resistere a ogni costo. E infatti gli è costato. Dicevo che in quest’albergo di Olbia… eru arruvutu allu puntu du tururu lu sciacquonu: ma duve steva lu sciacquoni? Nun si capiva nienta. A me sti alberghi ultramoderni non li suppurtu prupriu. Potevu domandari allu vicinu di camera? Dovevo per forzu chiedere aiutu allu tipu della ressepscion. E’ arrivato subita sul luogo dellu delitto e in quattro e quattr' otto ha fatto scendere l’acqua e se n’è andato senza spiegarmi come ha fatto. Vi sembra che posso dipendere dalla reception tutte le volte che devo andare in bagno? Avevo solo due possibilità: o comprarmi un secchio di plastica o trasferirmi in un albergo distante da Olbia. Aggiu sceltu di cumpruru lu succhiu u du sturu a Olbiu.

Succiede puru a voi di parlaru un'altra lingua senza rendervene conto?

Perché nei film le notizie vanno sempre a coppie?

Ore 9.00 "Papà! C'è una buona notizia e una brutta: la buona notizia è che ho ritrovato la chiave del diario segreto, la brutta è che ho perso il diario segreto..."


Ore 9.45 "Papà! C'è una buona notizia e una brutta: la buona notizia è che ho ritrovato il diario segreto, la brutta è che ho perso la chiave..."

Ore 10.05 "Papà! Ci sono due brutte notizie..."

sabato 20 novembre 2010

Il vecchio Luigi

Il vecchio Luigi ha un gemello, Gino. Si rassomigliano talmente tanto - fisicamente dico perché per il carattere sono l’esatto contrario l’uno dell’altro - che quando mi capita di incontrare uno dei fratelli per strada, per capire con chi dei due mi sono imbattuto devo guardare la moglie. Ecco, Luigi è quello senza. Sì, vive da solo. So che vuole vivere da solo. Una scelta di vita, la sua. Persino la sua casa, situata nel bel mezzo di un vigneto, sembra nascondersi sotto un pesante cappotto di edera e quattro enormi alberi di fico e desiderare la protezione di quel muro malandato interrotto da due cancelli coperti di ruggine. Il primo cancello, quello di sinistra, è talmente arrugginito che è diventato impossibile aprirlo. Inutile quindi sprangarlo o condannarlo come soltanto gli ingegnosi contadini solitari sanno fare. Un cartello di legno, legato alle sbarre con del filo di ferro, intima con una scritta dipinta a mano in lettere maiuscole: “VIETATO ENTRARE”. Personalmente, lo trovo perfettamente inutile quel cartello ma non ho mai avuto il coraggio di chiedergli una spiegazione. Ma a guardarlo bene, il muro, e neanche troppo attentamente, ti accorgi che addirittura un bambino, oppure una pecora smarrita o un ubriaco, lo potrebbero scavalcare senza la benché minima difficoltà. Il cancello di destra, impercettibilmente meno arrugginito dell’altro, regge un cartello gemello del primo nel quale si può letteralmente leggere: “Qui sì, che si può entrare. Firmato Luigi”. Che faccio, me ne sto fuori come uno scemo a guardare muri e cancelli e a leggere i cartelli o entro ad assaggiare il suo sempre ottimo vino rosso?

venerdì 19 novembre 2010

Il paese di Ciscaless

L’inglese non era ancora una lingua d’aeroporto, oh no! Non lo capivamo ma con l’inglese viaggiavamo davvero. Con la mente. Uno faceva il basso con la bocca, alcune note in rapida successione sufficienti a farci entrare nel paese di Ciscaless. Com’era già?
“Ciscaless, au pays de Ciscaless”.
La nostra convinzione della sua esistenza era tale che non ci voleva molto per disegnarlo con la mano, lì, un po’ sopra l’orizzonte. Il paese di Ciscaless prendeva corpo, consistenza, si materializzava intorno a noi. Non avevamo più le ginocchia sbucciate, non ci mancava più un dente davanti e la pezza al culo diventava invisibile. La canzone finiva quando l’avevamo cantata tre o quattro volte, ma il mondo che aveva creato non si dissolveva improvvisamente. Si rimpiccioliva piano piano, e un po’come quando hai guardato il sole, persisteva nella memoria, continuava a scaldarti il cuore. Vai col basso...
« Ciscaless, au pays de Ciscaless
Aignu finess, aignu faless
Aignu Ciscaien »
Dimenticavo: la canzone era “Venus” dei Shocking Blue, 1970.

sabato 13 novembre 2010

Le cose non stanno così

No, Coniglio, le cose non stanno così. Gli uomini credono di avere bisogno di consigli stupidi più dell'aria che respirano, più della loro vita stessa. Ho visto gente morire per un consiglio stupido, tanta, mentre quello di cui aveva profondamente bisogno era solo di un piccolo, tenero, stupido, coniglio.

La route

La route passe par la montagne
Là-bas, plus loin, beaucoup de lasagnes,
Des tuyaux, des maisons en ruines,
Des poubelles et des chats qui fouinent.

Tout craquèle à volonté

Tout craquèle à volonté dans cette ville
Les nomades prennent thés et camomilles
Les arcades blanches sur le peuple tombent
Les sorcières qui ont faim vont vers les tombes
Les paysans dans les blés manient la pelle
Les curés s'impatientent dans la chapelle
Les fillettes affamées mangent leurs morves
Des gangsters armés les guettent dans la rue Morgue
Mais quand finira donc tout ce fracas?
"Peut-être la semaine qui viendra!"
Quand arrivera ce fameux dimanche
Et quand Don Quichote de la manche?
Imitons donc le très grand César
Pas comme le peureux qui prennent le car
Faisons comme le grand Cassius
Pas comme les peureux qui prennent l'autobus
Creusons, travaillons, reconstruisons notre domaine!
Eh! vous, là-bas, pourquoi dévastez-vous la plaine?

lunedì 1 novembre 2010

Un attimo

C’è stato un incidente. Mica qui: nella mia testa, un incidente narrativo se vuoi. Il personaggio principale scansa la morte. Facciamo un incidente stradale, o ferroviario, fa più effetto. Verso la fine della storia ci si accorge che era una vita immaginata in un attimo di agonia, che in realtà il protagonista non è sopravvissuto ma che gli è stata regalata una sorta di vita virtuale. Si torna sulle lamiere contorte, il fuoco, i pompieri, l’ambulanza. Sorpresa: la vittima non è il protagonista ma il lettore. I personaggi sgomenti guardano il lettore disteso sulla barella, il lettore che prima di morire ha un attimo di vita immaginaria, che si segue, che si vive con lui, nel libro e fuori dal libro, fino alla fine. E si torna ancora una volta sui luoghi dell’incidente. Questa volta a morire è l’autore. La storia si ferma lì: il protagonista viene sospeso nel gesto di un’eterna frenata, il libro ti sparisce da sotto gli occhi. Bussano. Chi bussa alla tua porta?

domenica 31 ottobre 2010

Quali potrebbero essere le origini europee della festa di Halloween?

Tra gli usi, i costumi e le leggende del nostre paese potrebbe aver dato origine alla festa di Halloween un’usanza dimenticata ma un tempo solidamente ancorata a Tretara, un paesino del Molise,oggi un mucchio di rovine tra le quali pascolano le pecore. A Tretara la vita era dura e spesso i prodotti della terra non bastavano per tutti. Certamente i giovani in età di matrimonio non avendo la possibilità di spendere non erano in grado di invitare tutti i parenti e gli amici che avrebbero desiderato. Così, per ragioni di economia, si decise che i giovani si sarebbero sposati in un solo giorno nell’anno, il 1 novembre, e che si sarebbe data una sola festa a cui avrebbero potuto partecipare tutti.
La notte del 31 ottobre i giovani maschi presero così l’abitudine di festeggiare assieme il loro addio al celibato. Ed erano notti brave in tutte le bettole e taverne di Tretara. In breve, tutti puzzavano di vino. Era però costume che questi giovani andassero ad augurare la buonanotte alle fidanzate e questo lo dovevano fare da sobri, o perlomeno sobri dovevano sembrare. Ed ecco che si diffuse l’uso di mangiare tanto aglio quanto si era bevuto vino, per neutralizzarne gli odori e non destare nell’amata nessun sospetto.
Halloween è nato così, tra l’aglio – pronunciato Allo – e il vino. L’insieme delle due parole è diventato prima “Allovin” poi, ma questa è un’altra storia, “Halloween”.

venerdì 29 ottobre 2010

Fedeltà o dipendenza?

Uno che rimane una vita fedele a una casa automobilistica e, attraverso questa, al proprio paese, si capisce. C’è l’alfista sfegatato, che, sentendosi in dovere di dare il suo contributo all’economia italiana, compra italiano, chi da sempre e nonostante la caratteristica ruggine ha avuto una Fiat, ma c’è anche chi compra straniero, come me, e si vota all’acquisto di Renault, Peugeot, Ford o Toyota. Io compro Lada: carrozzeria come non ne fanno più, motore rombante, volante, freno a mano. Ma una a marca di carta igienica, perché esserle sempre fedele? Non si sa neanche di che paese sia la carta igienica…

Tempo fa lessi che alcune note marche di sigarette aggiungevano qualche subdola droga nel loro tabacco al fine di aumentare la dipendenza dei consumatori. Lo stesso ho letto per alcuni prodotti alimentari destinati a cani e gatti: è possibile che per ragioni esclusivamente economiche le multinazionali della carta igienica aggiungano nell'impasto di cellulosa che successivamente riempirà il nostro carrello, poi il nostro portabagagli e infine finisce nel nostro miavetecapito, aggiungano dicevo una sostanza che, assorbita inconsapevolmente ogni volta che ci detergiamo, ci renda tutti come drogati e schiavi di quella marca? Come spiegare altrimenti che nei bagni dei supermercati la gente si sniffi senza ritegno i rulli di carta igienica con la scusa che è profumata e come rendere conto di quest’improvvisa passione per i multistrati? E lo spinello, siamo sicuri che la droga sia dentro e non sia invece costituita dalla carta igienica che sempre più spesso sostituisce le cartine?
Che faccio? Chiamo Le Iene o Striscia?

giovedì 21 ottobre 2010

Esercizio di scrittura creativa



L’esercizio di questa settima consiste nell’immaginare un normalissimo uovo, il suo guscio bianco e liscio, la sua forma ovale, al suo interno l’albume  e il tuorlo, e di trattenerne l’immagine il più a lungo possibile nella vostra mente. I più bravi ci riescono per ben dieci minuti, per voi cinque – sei minuti saranno più che sufficienti. Trascorso quel lasso di tempo, non indugiate oltre: prendete la penna e descrivete un coccodrillo.

martedì 12 ottobre 2010

Come scrivere un libro noioso?

Sapete com'è: in un pullman, magari durante una gita scolastica, s'alza uno e chiede ai presenti d'immaginare un deserto, così tanto per fare un test psicologico. Allora centovent'otto palpebre comprese le vostre e quelle dell'autista si chiudono contemporaneamente per fissare quel deserto. Solo che immaginare un deserto, almeno per quel che mi concerne, è la cosa più difficile che ci sia al mondo. Un po' d'erbetta spunta sempre qua e là, e ci sono i cespugli, secchi ma ci sono, e l'oasi senza il quale non c'è deserto, poi i cammelli e i dromedari, gli uomini del deserto, le carovane, Mosé col suo popolo, gli avvoltoi che oscurano il cielo, gli insetti... In meno di cinque minuti il vostro deserto diventa l'Avenue des Champs Elysées.


Scrivere un libro piatto, che non dica e non insegni nulla, un libro noioso, credo rientri nello stesso ordine di difficoltà. Ecco chiudi gli occhi e cominci a scrivere di niente. Bè, ci riesci benissimo, almeno le prime tre pagine. All'improvviso un'idea, una pessima idea che tenti di scacciare con tutte le tue forze perché troppo spassosa. Ma ritorna nella tua mente finché non cedi perché l'unico modo che hai di liberartene è di scriverla. La scrivi. Sperando ovviamente che le cose finiscano qui. Ma oggi non sei fortunato: ecco arrivare quell'altra cosa che se non la scrivi muori. E scrivi pure quella. E poi le idee affluiscono come dei beduini e tu non puoi fare altro che disporle sulla pagina nella speranza che non s'incontrino e facciano dei figli. Ma è proprio quel che succede. Il vostro libro si trasforma in quel che non avreste mai e poi mai voluto che si trasformasse: un orrendo capolavoro.



Ora vi chiedo: come scrivere un sano, noioso libro di trecento pagine da mettere nella libreria e non aprire mai?

sabato 9 ottobre 2010

Lo so...

Lo so, lo so che sei un coniglio immaginario e che ti ho inventato io, che davanti a me, in questo preciso momento, non c’è nessuno, che in ogni preciso momento non c’è mai stato nessuno. Lo so che parlo con te che non esisti e solo per me fingi di esistere.
Ma io… per te, esisto?

giovedì 30 settembre 2010

Ritrovarsi

Come è bello ritrovare se stesso dopo averlo a lungo cercato! Sai, Conì, è come un amico che hai perso di vista e incontri per strada magari un po’ invecchiato. E’ vero, si rischia di non riconoscerlo più, di passargli vicino e di non accorgersene neanche. C’è gente che sopravvive a se stesso senza saperlo e continua a cercarlo in ogni angolo di via. Accade anche il contrario, che egli sopravviva a te e non lo sappia. Allora continua a cercarti come un cane cerca il padrone che lo ha abbandonato.
Io sono stato fortunato: ho trovato lui che cercava me mentre cercavo lui. Un vago saluto, poi le domande. Ti sei sposato? Hai dei figli? Sei felice? Mi ha detto di no, no e no, che non gliene importava, che non sarebbe andato più via.
Non credergli mai, Coniglio. Il mondo è troppo grande per perdersi una sola volta .






domenica 26 settembre 2010

Quante lacrime ci sono in una cipolla?


Vuoi davvero sapere quante lacrime ci sono in una cipolla? Sai, Coniglio, dipende da quanta gente c’è intorno ma sono tante, credimi. Fai il conto che ci siano dieci persone e facciamo che in media vengano prodotte circa cinque lacrime per occhio e quindi dieci lacrime per i due occhi e per persona. Di conseguenza, dieci persone, cento lacrime. Cento persone, mille lacrime. Settecentomila persone, sette milioni di lacrime.  
Dividere tutte le cifre per due in caso di ciclopi. 
O di mezza cipolla.

(A Ale Coniglio)

venerdì 17 settembre 2010

L'invito

Ogni giorno che Dio ha fatto, quando mi vengo a sedere su questa panchina nel parco, guardo lei che guarda me. Ma rimaniamo lì, a distanza, come due leoni sul sagrato, l'uno a spiare i gesti dell’altra, a leggere nei nostri cuori, come lei legge nel suo libro, una storia d’amore che non vuole cominciare. Sapesse…


Sapesse che sono seduto su un chilo di emorroidi… e un chilo d’emorroidi sono un motivo sufficiente per non far nascere un amore. Chissà, mi dovrei alzare, sorreggere il suo sguardo, sorriderle e, con tutto il coraggio di cui sono capace, dirle: “Signorina, perché non viene a pranzo domani a casa mia? Mi farebbe un immenso piacere…”

Dovrei… E che cosa le cucino poi? Due spaghetti alla carbonara?

sabato 11 settembre 2010

Don Barras

I.


“Dinghiliana dinghiliana

Tzia Maria nch’est ruta in funtana

E su fizu nch’est rutu in su ludu

muzere bella e maridu corrudu”



La signora Luigia ondeggiava sotto l’alto soffitto della lolla campidanese al ritmo di un dillu che dolcemente cantava mentre il povero marito, in punta di piedi su una sedia impagliata, cercava invano di afferrarla.



“Vieni giù!” urlò Palmiro Seddas.

La moglie proseguì nel canto e nella sua danza aerea indifferente alle suppliche dell’uomo. Vicino a lui, la vecchia madre, una vedova vestita di nero, scarpe da tennis, monosopracciglio, accenno di baffi, espressione severa. Tutt’intorno, delle galline, delle oche grasse, dei conigli, un gatto, un asino grigio che, indolente, da anni girava intorno alla sua mola e il cane Putzu, un meticcio pidocchioso dal pelo lungo e sporco.

“Vieni giù!”, ripeté l’uomo, ma la donna che volteggiava nell’aria era troppo immersa nel dillu per sentirlo.



“Dinghili dinghili Dinghili dou

Ei su babbu si mandigad’un’ou

Ei su fizu atterettantu

Cando ha’ gana intonad’unu cantu

Unu cantu bellu e semper nou

Dinghili dinghili Dinghili dou”





La suocera, gli occhi infuocati dall’ira, ordinò al figlio: “Palmiro, prendi la scopa! Glielo faccio vedere io Dinghili dou!”

A queste parole la signora Luigia scoppiò in una risata isterica, perse il tempo, sbatté contro la grossa trave di legno e cadde sul pavimento di pietre a mezzo metro dalla vecchia signora. Fu immediatamente legata, impacchettata, imbavagliata, portata in camera e assicurata alle sbarre di ferro del proprio letto.

“E’ così che ci ringrazi, porca che non sei altra?” le urlò in faccia la suocera. “Se non fosse stato per mio figlio oggi saresti sposata con un cartoneri e cercavi cartone d’imballaggio in mezzo alla mondezza. Sai che ti dico? Tu hai il peccato in corpo, il diavolo in persona, sì, il diavolo, e c’è una sola persona in Sardegna che possa fartelo uscire: don Barras…”

“No!”, gridò il figlio. “Don Barras no! Quell’uomo non metterà mai i piedi in casa mia!”

“O vai a cercare don Barras o ti tieni tua moglie così com’è. Ti piace vederla volare per le stanze? Vuoi che la gente ti prenda in giro? E’ questo che vuoi? Ma l’hai vista tua moglie?”

“Ma…”, protestò Palmiro Seddas, “lo sai che cosa fa don Barras alle donne? Lui..”

“Sì, che lo so”, l’interruppe la madre. “E allora? Che cosa può fare a una donna sposata?"

Palmiro Seddas, che non si voleva arrendere così facilmente all’evidenza di chiamare don Barras, si aggrappava alla speranza che la moglie fosse solo vittima di malocchio. Rivolgendosi alle persone giuste, anche qui in paese,lei potrebbe guarire…

“Chiamiamo la signora Faedda! Lei sa come si fa. Conosce tutte le mexinas de s’ogu pigau. Ti ricordi quando hanno rubato le pecore di Nanneddu Pitzolu? E’ stata lei a fare il rasu de Sant’Antoni che ha permesso di ritrovarle. Neanche Pitzolu ci credeva ma quando ha ritrovato le sue pecore a s’Acqua Cotta ha dovuto crederci per forza. Pare che la signora Faedda sapesse anche chi le aveva rubate.

“Non farmi ridere”, sbottò la madre. “La signora Faedda al massimo con le sue formulette ti fa sparire i porri della mano, se lo vuoi sapere. La conosco io, quella. A tua moglie non serve una così. Non se ne fa niente del rasu. Mica è una pecora. Lei ha bisogno di un esorcista e don Barras è un esorcista vero.”



La discussione sull’opportunità di introdurre in casa propria un prete depravato si protrasse per tutto il pomeriggio ma alla fine il figlio cedette alle incalzanti argomentazioni della madre.

“Va bene, disse sottovoce, domani lo vado a cercare…”

Cenarono mestamente con gli avanzi del pranzo, a loro volta avanzi del giorno prima: del pane duro, un po’ di pecorino stagionato e un brodino di carne che portarono pure alla signora Luigia la quale, tolto il bavaglio, doveva essere imboccata col cucchiaio. Di questo preferiva occuparsene lui mentre la madre dava da mangiare agli animali e ripuliva un po’ la porcilaia, la stalla e il cortile.

Marito e moglie erano soli in camera. Gli occhi di lui tradivano una profonda sofferenza, quelli di lei solo voglia di canto e di ballo senza coscienza di sé e della vita intorno.

“Chi è don Barras?” gli chiese. Il tono della domanda era quello di una donna presente a se stessa tanto che l’omone fu sorpreso da quelle parole improvvisamente corrispondenti al suo desiderio.

“Nessuno… Non è nessuno..” rispose, turbato da quel lampo di lucidità.

Uscì dimenticando di rimetterle il bavaglio.





“Dinghiliana Dinghilianedda

Su babbu in cappotto ei sa mama in bunnedda

Ei sa pisedda in camisa arrandada

Cappellu in conca e bene apprendada”





II.

All’alba, il contadino attaccò il cavallo a sa karretta e lasciò la sua abitazione alla volta della Giara di Gentruri.



Strada facendo i suoi pensieri erano costantemente rivolti all’infelice donna che aveva sposato cinque anni prima mentre la natura indispettita invano gli mostrava le sue bellezze. Per lui erano solo dei campi più o meno arabili, fecondi, a seconda della loro posizione o della qualità della terra. Quello che ora si estendeva a destra era terra luàttsa, apparentemente buona ma traditrice…



Davanti a lui, il sole estivo cominciava a spuntare sulla linea verde blu dell’altopiano ai cui piedi ancora sonnecchiava il paesetto di Gentruri. Appena varcato il cartello di benvenuto, trovò sulla sinistra il bar del vecchio Tendas indicatogli dalla madre. Fermò la carretta davanti all’ingresso. Tre metri a destra, in una leggera rientranza del muro, a più di un metro di altezza, sfidando le leggi della fisica, qualche animale, un uomo di sicuro no, più probabilmente un cane, non si sa come, vi aveva depositato i propri escrementi. Entrò.

Il bar di Ananìa Tendas era uno di quei locali eternamente votati a consolare le sconfitte elettorali dei suoi clienti, o a festeggiarne le vittorie, essendo, come quasi tutti i bar dei paesini sardi, politicamente schierato. Quando non avevano il privilegio di diventare sezione di partito, e in mancanza di bandiere e di simboli politici da mettere in bella mostra, manifestavano le loro tendenze nei bagni, perlopiù alla turca, dove erano appese a un chiodo, per farne l’uso più dissacrante possibile, delle strisce del giornale degli odiati avversari.

Ananìa Tendas, vedendo entrare l’omone grasso, chiese con tono che avrebbe voluto professionale: “Desidera?”

“Un’informazione”, rispose Seddas.

“Cosa vuole sapere?”, chiese il barista.

“Sto cercando un certo don Barras…”

“Don… E’ meglio non nominarlo quello…”

“E perché?”, si stupì Seddas.

“Il perché lo sanno tutti in paese ed è meglio evitare l’argomento, qui.”

“Ascolti, io sono il figlio di Defenza Piras. Mi ha detto di rivolgermi a lei che mi avrebbe aiutato…”, spiegò Seddas.

“Il figlio di Defenza? E come sta? Bene?”

“Per l’età che ha sta bene. Un po’ di artrosi ma sta bene…”

“E chi non ce l’ha l’artrosi! Allora tu sei Adelfio?”

“No, sono Palmiro. Adelfio è in Gallura.”

“Ascolta, Palmiro, il tuo don Barras lo trovi lungo il sentiero in una pinnetta a circa due chilometri dall’inizio della Giara. Non puoi sbagliare. Se è per quello che penso ti dico solo una cosa: per te sarà dura, molto dura… Ti devi fare coraggio… Tu sai cosa fa don Barras? Lo sai?”

Palmiro Seddas si rattristò. Bevve il suo caffè, salutò con un cenno del capo, uscì dal bar, diede uno sguardo fugace agli escrementi nella rientranza del muro e si avviò verso il suo destino. Alle sue spalle la risata di Tendas.



Madre natura era parecchio distratta quando creò la Giara. Era forse sua intenzione farne la bocca di un immenso vulcano nel quale gettare ladri e assassini o un deserto rovente dove solo i serpenti, gli scorpioni, i demoni e le anime dei dannati potessero vagare i giorni d’inferno, come le era riuscito così bene in altre parti della Sardegna. Ne venne fuori un paradiso in terra, brulicante di una grande varietà di animali, tra i quali il cinghiale, la lepre, la volpe, vari uccelli di palude e il piccolissimo cavallino della Giara che tutt’oggi vive tra i suoi simili allo stato brado. L’altopiano è ricoperto di corbezzoli, mirti, lecci e sughere sotto le quali è bello ripararsi quando i raggi del sole sono spietati e l’aria diventa irrespirabile. Qua e là, alcune domus de janas e qualche rudere nuragico testimoniano che anticamente l’uomo vi ha abitato. Più recentemente, i pastori hanno costruito le loro pinnettas, casette coniche ricoperte di rami in guisa di tetto, dove occasionalmente hanno trovato rifugio banditi armati di moschetto o qualche strano eremita, come ora don Barras.

Palmiro Seddas non era molto distante dal luogo indicatogli da barista di Gentruri. Sapendo dell’esistenza dei cavallini, si guardava intorno nella speranza di scorgerne almeno uno ma niente si mosse nella macchia. Arrivato alla pinnetta di don Barras, scese dalla carretta, avanzò verso l’ingresso della casetta e si fermò aspettando che l’uomo ne uscisse.

“Lei chi è?”, chiese una voce grave dietro di lui. Seddas si voltò. Dietro un muretto a secco, l’esorcista lo fissava dritto negli occhi. Si reggeva su un bastone che poteva improvvisamente tramutarsi in arma. Era un uomo vecchio dietro una lunga barba bianca, di statura media, la maglia e i pantaloni sporchi e laceri dei mendicanti. “Che cosa ci fa qui? Che cosa vuole?” L’omone, che non era abituato a questo tipo di accoglienza, fu sorpreso dal tono ostile del prete.

“Lei è don Barras?”, riuscì a chiedere.

“Perché cerca don Barras? Qui non c’è nessun don Barras!”

“Mi hanno detto che l’avrei trovato qui…”

“Se ne torni da dove è venuto. Don Barras qui non c’è. Se n’è andato. “

Il signor Seddas non rispose. Rassegnato, risalì sulla carretta, fece inversione intorno a una sughera e si fermò davanti all'eremita.

“Come faccio con mia moglie adesso? Don Barras era la mia unica speranza…”

“Che cos’ ha sua moglie?”, chiese l’esorcista.

“Il demonio… E’ posseduta dal demonio…”

“Vengo con lei”, disse l’esorcista sedendosi vicino all’omone.

Puzzava come non era possibile puzzare, come non puzzano neanche le carogne su cui amano rotolarsi i cani.

Destino volle che, proprio sul sentiero che aveva percorso poco prima, si fosse fermata una coppia di cavallini. Quello di dietro era visibilmente un maschio eccitato e le sue intenzioni erano chiare.

Tanto chiare che l’esorcista rideva, forte rideva allarmando una famiglia di gallinelle d’acqua che volò via in un rumoroso battito d’ali.





III.

Le vie di Gentruri sono deserte sotto i colpi del solleone. Cedono all'animazione soltanto la sera quando gli anziani si siedono davanti all'uscio e i più giovani si spingono fino a "prattsa 'e cresia" all'ombra del campanile.

Era mezzogiorno quando la carretta di Palmiro Seddas intraprese l'attraversamento di un paese immobile e vuoto. Ciò nonostante, l'omone sentiva su di loro mille occhi che non si perdevano un istante del loro passaggio, quasi fossero statue di santi i giorni di siccità o dei condannati destinati alla forca. Don Barras non manifestava alcun disagio. Aveva lo sguardo fisso, fiero, e il sorriso della sfida. Seddas non osava guardare oltre la criniera del cavallo e quegli occhi doveva sentirseli addosso ben oltre l'ultima casa del paese.



"Mi spieghi che cos'ha di preciso sua moglie."

"Vola...", rispose Seddas imbarazzato.

"Come sarebbe a dire? Non ho mai sentito niente del genere... ma se è vero quanto afferma un semplice esorcismo non potrà bastare. Ci vorrà più tempo, dei giorni, forse delle settimane, se non dei mesi. Il demone che ha preso possesso del corpo di sua moglie è potente e deve essere combattuto con tutte le forze di cui sono capace. E' possibile che io perda la vita durante l'esorcismo. Un dubbio, un piccolo cedimento e sono perduto. Se questo dovesse accadere dovrete cercare un altro esorcista, uno che sia più giovane e più forte di me. A Bitti c'è un certo Talanas. Chiedete di lui. E' una vera forza della natura... ma potete stare tranquilli, ci sono io e sono forte abbastanza per sconfiggere qualsiasi demone minacci la vostra felicità..."

Seddas non seppe rispondere altro che: "Grazie, don Barras..."

"Non mi deve ringraziare. Io sono fatto così: quando la gente ha bisogno di me una mano la do volentieri." Poi, vedendo un cespuglio di cisto l'esorcista ordinò: "Si fermi un attimo!" Scese dal veicolo e andò immediatamente a nascondersi dietro il cespuglio.

La sua ombra era quella di un treppiede.



Ora che si avvicinavano alla sua azienda, per fortuna un po’ in disparte rispetto all’abitato, a sua volta piccola frazione del paesino di Gonnosmassargia nell’entroterra marmillese, si poneva per Palmiro Seddas il problema dell’umiliazione di essere visto in compagnia di quell’essere ignobile. L’ingresso dal cortile in terra battuta era l’unica soluzione possibile se voleva evitare gli sguardi indiscreti dei suoi compaesani sicuramente appostati davanti a quello principale. La carretta abbandonò quindi la strada bianca per una Kaminera provvisoria tra i campi di grano. Varcato finalmente il portone di ferro battuto i due furono accolti dalla madre di Seddas e da un cane festoso che, sbucato come un fulmine dalla stalla, si precipitò sul padrone.

“A cuccia Putzu!” disse quest’ultimo che tuttavia non sembrava dispiaciuto di essere accolto in quel modo dal suo amico a quattro zampe.

Ma Putzu non ne voleva sapere di andare a cuccia. Dopo avere leccato le sue mani e essersi ben bene strofinato contro le sue gambe, passò ad annusare l’esorcista appena sceso dalla carretta. Agitava freneticamente la coda e cominciò a girare intorno all’uomo come per trovare un varco.

“A cuccia!” urlò di nuovo Palmiro Seddas. Putzu non lo ascoltava. L’unica cosa al mondo che desiderava in quel momento era di ficcare il proprio muso nelle parti più intime e puzzolenti dell’esorcista. Cosa che fece poco prima di ricevere nelle proprie un forte calcio dalla vecchia signora.

“E legalo questo cane!” ordinò al figlio. Palmiro accorse con un guinzaglio di cuoio normalmente destinato a Puxi il pastore fonnese che faceva la guardia alle sue pecore e legò il cane a un lungo chiodo ricurvo piantato nel basso muro di pietre che conteneva il letamaio. Putzu cominciò allora a tirare sul guinzaglio e a guaire di disperazione.

“Dov’è la signora?” chiese don Barras commosso dalla pena del povero animale.

“ Stamane l’avevamo legata al suo letto ma è riuscita a liberarsi e ora passa da una stanza all’altra come un’anima dolente. Poco fa era nella lolla: se ci sbrighiamo forse la troviamo ancora lì”, disse la vecchia signora.

“Andiamo, allora!” disse don Barras dirigendosi verso l’abitazione preceduto dalla vecchia e seguito dall’omone. Passando davanti al letamaio accarezzò Putzu, il quale si calmò e smise di piangere. Proprio mentre Palmiro Seddas stava varcando la soglia della lolla don Barras si voltò tendendo la mano per fermarlo. “Lei è meglio che rimanga qui!”

“Ma…”

“Rimanga qui!” ripeté l’esorcista chiudendo la porta.

Palmiro Seddas si sedette per terra vicino a Putzu e come lui tese l’orecchio.



IV.

Seddas stava in ascolto di ogni rumore venisse da dentro la lolla. Gli pervenivano così forti che gli sembrava di essere pure lui dall’altro lato della porta. Il cigolio della mola che da un’eternità girava su se stessa, lo starnazzare di oche e polli scacciati con un calcio, lo spostamento rumoroso di sedie, la solita canzone della donna che amava.

“Vieni giù!” udì fortemente. “Giuro che se non vieni giù prendo la scopa e ti faccio vedere io!” Erano le solite minacce che la madre rivolgeva alla nuora quando era colma di rabbia impotente davanti all’ondeggiare spensierato della giovane signora. E poi la risata, il tonfo, lo sfogo di una vecchia che odiava profondamente la donna che gli aveva rubato il figlio.

“Lo sai chi è quello? Non lo sai? E ora te lo fa vedere lui chi è.” Poi, rivolto al vecchio esorcista: “Portiamola in camera da letto!”

I rumori si fecero più tenui come indeboliti dalla distanza accresciuta e da una seconda porta chiusa ma erano abbastanza chiari da fare capire quello che stava succedendo.

“Bessinci! Appu nau de nci bessiri! Allora non vuoi uscire? Non vuoi uscire?” gridava l’esorcista con voce potente. “Bessinci o ti fatzu biri deu!”

In risposta, una risata folle, una risata di sfida.

“Vuoi davvero che ti faccia vedere? E’ questo che vuoi?”

“E le faccia vedere!” Questa era la voce della madre. Quanto la odiava la madre. Mai una volta che avesse dimostrato di avere un cuore, un sentimento. Era fatta, la madre, per torcere il collo ai polli e uccidere i conigli, non per provare dei sentimenti.

“E insaras ti fatzu biri deu!” urlò l’esorcista. “Ti faccio vedere io!”

Ci fu un lungo silenzio, che Palmiro Seddas non voleva interpretare, ma che interpretava benissimo…

“Oh, Deuuuu!...” gridò la madre. “Oh, Deuuuu! Allora non sono storie! E’ tutto vero! Ma come è possibile una cosa così? Neanche gli asini ce l’hanno così grande! Già lo credo che con quell’enorme aspersorio i diavoli se ne scappano via! Ma sono tutti così nella Giara? Non sarà che a forza di vivere tra i cavalli a poco a poco diventate come loro?”

“MA MI OLLISI LASSAI SU CULU IN PAXI?” si sentì urlare. Non era la voce della giovane donna o della vecchia e non era neanche quella dell’esorcista. Nella camera da letto c’era un’altra persona. Questa volta Palmiro si decise ad entrare. Spinse la porta della lolla e proprio mentre stava entrando incrociò sulla soglia un ometto alto sì e no un metro e quaranta col costume tipico di Orgosolo. Aveva il naso rosso degli ubriaconi e due piccole corna sulla fronte. Suonava un dillu allegro con le launeddas e ballava procedendo ritmicamente verso il letamaio. Incantato dalla musica Palmiro Seddas lo lasciò passare e altrettanto fece Putzu che lo avrebbe seguito se non fosse stato legato. Forse avrebbe visto sparire per sempre quell’essere straordinario insieme alle sue festose note.

Poi comparve don Barras, accompagnato dalla vecchia.

“E’ stato più facile di quanto pensassi”, disse soddisfatto.

“Ora corra da sua moglie. E’ libera. Il demone che possedeva il suo corpo è uscito da lei.”

Palmiro Seddas che non aveva il coraggio di sostenere lo sguardo del vecchio fissava il pavimento di pietra come se avesse perso qualcosa.

“Non le ho fatto niente, stia tranquillo. Gliel’ho solo fatto vedere… ma era l’unico modo per sconfiggere quell’entità malvagia” spiegò don Barras.

Palmiro, il cuore battente, corse in camera. La moglie, Luigia, ancora troppo debole per potersi alzare dal letto aveva già ritrovato il colorito rosa del suo viso. Sorrideva come non le accadeva da troppo tempo ma non appena il marito la strinse tra le sue braccia esplose in calde e liberatorie lacrime d’amore. In un attimo la camera fu invasa da oche, galline, galli, conigli, un gatto, un maiale, un cavallo, da tutti quegli animali che vivevano nel cortile dei Seddas come una famiglia, stringendosi intorno ai loro padroni che celebravano nei singhiozzi le loro seconde nozze, mentre nella lolla l’asino indifferente al destino degli umani continuava a girare intorno alla sua mola.

Un venticello fresco spazzava il cortile dando un po’ di sollievo al vecchio stanco e affamato, le ombre cominciavano ad allungarsi sulla terra battuta, Putzu, che nel frattempo era riuscito a sguinzagliarsi, riprese a gironzolare intorno a don Barras, la madre di Palmiro a prenderlo a calci.

La vecchia guardò l’esorcista con occhi nuovi… Dopo tanto tempo si affacciò nel suo sguardo l’espressione di un qualcosa che poteva essere un sentimento. Ne era sicura: era l’uomo che da anni aspettava. Troppo a lungo era vissuta da vedova. Gli prese la mano. Lui non oppose resistenza, come se dal primo momento sapesse che sarebbe finita così.

“Quel suo coso, non è che me lo fa vedere ancora una volta?” chiese la vecchia signora.

“Quale coso?” sorrise l’esorcista.

“Quel coso”, precisò la donna.

martedì 24 agosto 2010

La mia estate con Fuffy



I soldati impugnano la spada, gli eserciti espugnano le roccaforti, al 33 via dei Ginepri si spugna il baccalà. Un forte odore di fritto si diffonde poi nell’aria, aleggia oltre le case, oltre la reception, la piscina, i campi da tennis e da calcio, oltre le siepi, oltre i limiti del villaggio-vacanze, oltre la strada, investe in pieno le narici di un gatto affamato, che tende il collo, chiude gli occhi, segue quei sentori come si segue la musica, trova cibo, amore e dei nomi, perché Fuffy si chiama Fuffy solo a casa nostra mentre più in là sarà Rusty, Miki, Cicci, Pompon, Tigre, Puffy, Bijou, Joujou, Molly, Micio, tutti nomi da gatto, cosa che Fuffy probabilmente non è.



Ormai è trascorsa una settimana e tutti conoscono Fuffy. Tutte le mattine si ferma davanti a ognuna delle 128 case del villaggio-vacanze. Vi trova ogni volta un piattino di plastica con circa 100 ml di latte. La sera, nuovo giro ma il piattino contiene invariabilmente 50 grammi di pasta e 50 grammi di carne o di pesce. Per semplificare diciamo 25 grammi di carne e 25 grammi di pesce. La stagione turistica del villaggio va da fine maggio a fine settembre per un totale di 119 giorni. In quell’arco di tempo possiamo calcolare che al gatto Fuffy vengono presentati 128 X 100 ml di latte al giorno, ossia 12,8 litri che per l’intera stagione diventano 1523,2 litri, quindi 297,5 chili di carne, 297,5 chili di pesce e 595 chili di pasta: quasi quanto il rifornimento di una nave da crociera per una settimana.



Ma a lui sembra non bastare mai. Fuffy guarda i bambini negli occhi, che diventano vitrei e inespressivi, poi, compiaciuto, osserva la successione degli eventi: i bambini si voltano, si dirigono verso casa, entrano, aprono il frigorifero e si trasformano in ladri. Uscendo mentono pure alla mamma. E sono fette grandi di salame, dei filetti di merluzzo, di platessa o di pangasio. Lo fa anche con i grandi ma per poco tempo, quello di portargli un quarto di bue, un pesce spada, un’orca assassina. Fuffy non mangia. La mascotte del villaggio non mangia mai. Tutt’al più assaggia.



Eh, no! Così non si fa! In via degli allori i nuovi arrivati stanno facendo il gioco sporco. Non hanno ancora disfatto le valigie che già impanano e friggono le alici. E’ normale che Fuffy stia lì e non da noi! Le alici fanno una puzza che se non ci stai attento ti ritrovi in casa tutte le cornacchie, i corvi, i gabbiani, i gatti e i topi oltre alle formiche e gli scarafaggi del circondario. Speriamo che commettano l’errore di fargli prima assaggiare un’alice fritta e poi di offrirgli un piattino con le teste e le lische, così non ne mangia. Detto fatto. Ma come si fa! Neanche nei cartoni animati i gatti mangiano le teste e le lische dei pesci!

“Fuffy, vieni!”

Fuffy viene.

“Insalata di polpo?”

Sì, insalata di polpo.



Che strano, finora nessuno si è chiesto “ma dove dorme Fuffy?” Il bimbo del 5 via delle Brughiere sicuramente no. Lo sa benissimo che dorme in camera sua nonostante il divieto, prima assoluto poi sempre più blando, dei genitori. Il bimbo del 6 se ne accorge e subito dichiara: “Micio vuole bene a me!”

“Prima di tutto,” replica il rivale, “non si chiama Micio ma Rusty e lui vuole bene a me!”

“Ah, sì?”

“Sì!”

“Allora chiediamolo a lui a chi vuole bene!”

“I gatti non parlano!”

“Noi abitiamo uno di fronte all’altro. Lo mettiamo in mezzo: se viene da te, vuole bene a te, se viene da me, vuole bene a me. Ci stai?”

“Ci sto!”

Fuffy viene messo nella terra di nessuno tra le due case poi i due contendenti indietreggiano fino alle rispettive terrazze.

“Micio!”

“Rusty!”

“Micio!”

“Rusty!”

Fuffy guarda a destra e a sinistra ma non si muove. Lo chiamano a lungo ma il gatto sta fermo lì. I bimbi cominciano allora a entrare e uscire da casa portando ogni volta in terrazza dei bicchieri e dei piattini di plastica colmi di ogni prelibatezza: una bistecca ai ferri, delle polpette al sugo, una frittata di cipolle, un dentice, un’orata, delle anguille, una razza, un calamaro gigante, un mostro del Lock Ness, un prosciutto san Daniele. I frigoriferi vengono svuotati, le dispense saccheggiate, le cambuse messe a ferro e a fuoco.

Fuffy, che vuole bene sia all’uno che all’altro, non tocca niente e semplicemente se ne va.



“Fuffy non c’è più! Se n’è andato via!”

I bambini piangono quando non vedono più Fuffy. Da via delle mimose a via delle Rose, da via del Mirto a via dei Corbezzoli, sono sospiri, pianti e lacrimoni disperati. E’ lutto cittadino, è mesta litania. Fuffy non c’è più, se n’è andato via.

Hanno smesso di cercarlo, non lo chiamano più. Per ogni evenienza, per remota possibilità, i bambini tornano in cucina e davanti ai genitori ammutoliti davanti al loro dolore, che non si oppongono più, chi sceglie un muggine, chi del salmone, chi del capitone marinato, chi anelli di calamaro, portano le loro offerte fuori in terrazza, davanti alle porte che lasciano socchiuse, rivolgono lo sguardo al cielo e vanno a nanna mormorando una preghiera.

“Mamma, Fuffy è tornato!”

I bambini ridono quando torna Fuffy. Da via della Mimose a via delle Rose, da via del Mirto a via dei Corbezzoli, sono risa, sospiri e lacrime di gioia. E’ festa cittadina, è grande allegria. Fuffy è tornato e non andrà mai più via.



A pensarci bene Tigre non è un nome da gatto e neanche tanto adatto a una femmina. Così la bimba di via delle camelie vedendo il gatto, la gatta ormai, dietro un cespuglio di mirto, mentre allatta i suoi gattini. E’ deciso, si chiamerà Bella. Per i gattini è troppo presto per dare loro un nome ma ci penserà più tardi.

E’ l’unica persona del villaggio a sapere che Fuffy è una femmina e per ora decide di mantenere il segreto. Niente da lei trapelerà, neanche un vago accenno, lo giuro giuro giuro se io parlo sono spergiuro. Perché poi tacere una cosa del genere? Ma che segreto è? Non sa darsi una risposta ragionevole ma le piace tanto l’idea di avere un segreto tutto per sé, specialmente ora che Tigre, Micio, Rusty o Fuffy che sia è nuovamente dato per disperso. Mentre gli altri bimbi portano i piattini in terrazza lei porta il suo dietro il cespuglio. Che bello essere l’unica persona nel villaggio a sapere della gatta e ad accarezzare i suoi gattini! Ma un tale segreto è un terribile fardello che le sue gracili spalle non sono più in grado di sostenere.

“Tigre è femmina!” dice alla mamma.

“No, Tigre è un maschio, te l’assicuro!”

“E invece è una femmina. L’ho vista con i gattini!”

Accompagna la madre perplessa fin dietro il cespuglio.

“Vedi che è femmina!”

“Ma quella non è Tigre! Eccolo Tigre!”

Il gatto che tutti cercano se ne sta tornando dalla sua famiglia. Dalla bocca penzola un’aringa affumicata da cui emana un forte odore di putrido. La posa delicatamente davanti alla sua femmina e divide con lei il pasto serale.

Tanto fa, tanto insiste la bimba che la madre si reca in paese e torna con quindici chili di aringhe affumicate. Domani, ci potete scommettere, butteranno via il frigorifero.



Le vacanze sono finite per Giulio il bimbo del 30 via delle Ortensie. Domani va via e non vedrà più Fuffy. Bussa a casa di Francesco il suo vicino.

“Mi raccomando”, dice, “dategli da mangiare. Miki va matto per lo sgombro al naturale. Ti ho portato le cento scatolette che ha comprato la mamma. Se mi aiuti un attimo… Per un po’ dovrebbero bastare ma dopo ci dovrete pensare voi.”

“Stai tranquillo,” risponde Francesco, “Cicci non morirà di fame. La mamma ha già comprato venti chili di baccalà e in più abbiamo i venti chili che ci ha lasciato Andrea che se n’è andato la settimana scorsa.”

“Voi quando ve ne andate?”

“Il 21.”

“Allora dovrete trovare a chi lasciarlo come ho fatto io.”

“Non ti preoccupare, conosco uno che va via il 28. Lo lascerò a lui.”

“E assicurati che abbia da mangiare.”

Le settimane passeranno e il gatto Fuffy, partenza dopo partenza, sarà affidato alle famiglie che ancora resteranno e ogni volta verrà consegnata, oltre al gatto, un'abbondante scorta di viveri per la sua sopravvivenza. L’ultimo ad andarsene sarà quello del 21 via dei Cicas il quale non potrà fare altro che lasciarlo al custode, un certo Ernesto. Lui non va mai via. Vive là. Stiperà in casa il resto di 128 frigoriferi e di altrettante dispense più il cibo comprato a ogni partenza. Saranno tonnellate e tonnellate di aringhe affumicate, sardine, alici, muggini, bottarghe, sarde, salmoni, orate, dentici, baccalà, sgombri, polpi, seppie, merluzzo, razze, mangiatutto, burride liguri, anguille, sogliole, palombi, cernie, rombi, spigole, pesci gatto, cane e spada. Ma poi si ricorderà di tutti gli animali che vengono abbandonati lungo le strade, nelle vie delle città, dei paesi, gatti, cani che nessuno vuole, che nessuno accarezza e nutre più. Riempirà una cesta per volta e, seguito da Fuffy e la sua famigliola, se ne andrà per san Teodoro, per Budoni, per le vie di Olbia, a ricomporre il suo esercito di soldati affamati a cui per un po’, per troppo poco, farà dimenticare le mani indegne di chi un tempo li coccolava.

Giulio dà un’ultima carezza al gatto e tristemente se ne va. Fuffy lo guarda mentre s’allontana ma è subito distratto dalle promesse di un allegro rumore di piatti.