giovedì 29 dicembre 2011

Ospiti


Io e mia moglie eravamo già comodamente infilati nei nostri pigiami pregustando le calde morbidezze della notte quando il campanello suonò. Ci guardammo in faccia con la medesima espressione interrogativa: ma chi poteva suonare a quest’ora di notte? La prudenza non essendo mai troppa la mia lei si rintanò in camera mentre io guardavo dallo spioncino. Riconobbi il mio vicino di pianerottolo, Gavino Murru, un tipo tranquillo, originario di Ovodda, che non avrebbe fatto del male a una mosca. Viveva da solo ma non era il solito orso solitario che scaccia lo scocciatore oltre i confini del suo territorio. Al contrario, si mostrava in genere molto disponibile con tutti e in qualche occasione lo fu pure con noi. Aprii, certo di non correre nessun pericolo. Lo feci accomodare sul divano del salotto e scusandomi di farmi trovare pronto per la notte gli proposi un limoncello. “No, grazie. Come ricevuto!”
“A cosa devo la sua visita?” indagai.
“Mi scuso per l’intrusione a un ora così tardiva, signor Porrella, ma sto vivendo un periodo di difficoltà…”
In effetti non aveva la sua solita espressione sorridente che ostenta in ogni circostanza.
“Ha dei problemi di denaro?”, chiesi.
“No, non di denaro… Ora le spiego…” In un certo senso mi sentii sollevato da queste parole perché dovete sapere che sono il tipo che non sa dire di no e non avrei avuto la forza di sottrarmi a una richiesta di prestito. E chi l’avrebbe sentita mia moglie! “Come avrà notato da una settimana ho degli ospiti a casa.”
“Sì”, risposi “Mi sembra di avere visto quattro persone con lei.”
“Sei, sono sei. Si tratta di mio fratello con la moglie e le altre due coppie sono dei loro amici di Bologna. Li ho invitati a casa per il Natale e si tratterranno fino a capodanno.”
Ah! Mi tranquillizzai, probabilmente la classica richiesta di aglio e prezzemolo al vicino di casa.
“Le serve qualcosa?” chiesi di nuovo.
“Ora le spiego”, proseguì il signor Murru. “ Sa com’è fatta casa mia?”
“Certo che lo so: tutti gli appartamenti del palazzo sono uguali, per lo meno tutti quelli sopra e sotto il mio sono uguali al mio mentre il vostro è simmetrico così come quelli sopra e sotto il vostro.”
“E come saprà abbiamo solo un bagno…”
Nel frattempo, mia moglie, che aveva riconosciuto la voce del vicino, era tornata in sala dove avveniva la nostra conversazione. Salutò.
“Per noi non è un problema . I nostri figli sono grandi e vivono per conto loro”, dissi.
“Neanche per me, in condizioni normali, solo che attualmente ho degli ospiti…”
“Ah! E come fate?” chiesi tra il preoccupato e il divertito.
“Si fa a turno, come al solito quando si è in parecchi.”
“Allora non è un problema neanche per voi!” dissi sollevato.
“Beh, un problema c’è. E’ che ogni volta che dovrebbe toccare a me si presenta sempre qualcuno alla porta del bagno e io non posso non lasciare il mio posto. Sapete, gli ospiti vanno trattati con riguardo… Fatto sta che quando mi avvicino al bagno, a qualsiasi ora del giorno, c’è sempre qualcuno che si presenta e mi chiede se per favore lo faccio entrare. Quando dicono di avere fretta, quando che ne hanno proprio bisogno… Insomma, per una ragione o per l’altra, sapete com’è,  cedo il mio posto…”
“E va bene”, dissi “ci sarà pure un attimo per lei, magari la notte!”
“No. La notte è peggio! Entrano ed escono in continuazione, quando non è l’uno è l‘altro. Le signore specialmente! Stanno a casa da una settimana e da una settimana non riesco ad andare in bagno! Non trovo mai l’occasione giusta. Una volta, ero già seduto sul water, bussarono alla porta del bagno. Era un’urgenza mi dissero. Meno male che non avevo ancora iniziato: mi alzai e cedetti il mio posto…”
“Non mi dica che davvero è da una settimana che non va in bagno!” dissi.
“Sì, è proprio così. E non ce la faccio più…”
Ci guardammo un’altra volta in faccia con mia moglie.
“Posso?” chiese il signor Murru guardando nella direzione del nostro bagno.
“Certo che può!” risposi.
Il signor Murru si alzò. La sua espressione era quella di un santo martire alle porte del paradiso.
“Conosco la strada”, disse. “Con permesso…”
Il resto lo potete immaginare…  Preciso solo che tiro cinque volte lo sciacquone.

domenica 30 ottobre 2011

Parole militanti


Non sapevo che potessi arrivare a tanto, io che aprivo bocca stando attento alle parole che ne uscivano, io che le controllavo ad una ad una come le maestre di un tempo controllavano scrupolosamente le mani e le unghie dei loro alunni. E se una di loro mi sembrava sospetta, per la vaga assonanza o la possibile sovrapposizione di significati con una di quelle parole che la buona educazione repudia, non potendo cancellarla dalla mia mente, la toglievo di peso dalla frase, la mettevo in un angolo e la lasciavo in castigo come si faceva con i bambini monelli.
Ora queste parole me le ritrovo in prima linea a combattere i principi stessi che animavano il mio discorrere. Sorde a ogni richiamo sono diventate indomabili e sfuggono completamente al mio controllo. Mi sentiste! Sono parolacce, turpiloqui e oscenità. Non proferisco una frase senza offendere con tutta la volgarità di cui sono capace, non c’è una parola che non sia scurrile, indecente o scandalosa. E sentiste come le dico! Non tra i denti, timidamente e senza convinzione: sono declamate, coraggiose, militanti. Se le parole avessero dei piedi le mie indosserebbero gli scarponi dei militari.
Tutto è cominciato quella volta in cui chinandomi leggermente per compiere qualche operazione che ho ormai dimenticato, non ricordandomi di aver messo il cellulare nel taschino della camicia, questo mi è caduto nel water. Nonostante fui pronto a recuperarlo – non erano passati più di tre secondi – l’acqua era penetrata in tutti i suoi meccanismi interni rendendolo inservibile, a meno che… a meno che lo immergessi immediatamente nel riso e aspettassi il miracolo. Ci fu. Il riso aveva assorbito tutta l’umidità e mi permise di  parlare col mio vecchio telefonino come facevo prima. Non esattamente…
Voi credete che l’avere recuperato il mio cellulare dal cesso possa avere modificato in qualche modo l’argomento delle mie conversazioni?

giovedì 27 ottobre 2011






Ti tengu cara


Stammi vicinu ùn ti n'andà ti tengu cara
Soca nun senti cum'ellu trema lu me core
Da parechji anni si per me la perla rara
S'avessi à vive senza à tè, bramu di more

E nostre case sò di punta à la sulana
Luce lu to purtellu à lu spuntà di u sole
So ch'è tu l'apri à lu sunà di la campana
Capelli sciolti cum'è le donne in le fole

Ùn possu rispirà l'aria che tu respiri
Senza trimà di passione quandu u ventu
Carcu di basgi, di canzone è di suspiri
Porta dinù lu to odore è ch'eo lu sentu.

Si fresca è pura quant'è l'alba appena nata
U rusulaghju si, fiuritu à tutte l'ore
Dammi la rosa, la più bella a più bramata
Quella chi nasce è chi fiurisce in lu to core.

T'aghju dettu una sera è incu l'angoscia in golla
Eramu soli à la funtana, era veranu
Chi lu mio core sdrughje cum'è mele in golla
Quand'è tu pigli la mio manu in la to manu

Stringhji la forte è tramindui in piena luce
Richi di tempu è di sperenza di a natura
Uniti pigliaremu a strada chi cunduce
Versu li ghjorni calmi è di gioie sicure. 

lunedì 3 ottobre 2011

Feudalesimo




Nel mondo feudale c’erano i vassalli, i valvassori e i valvassini ma a corte di Eleonora d’Arborea c’erano i vassalli, i vassoi e tanti pabassini.

venerdì 9 settembre 2011

Differenziata

Quando, tre anni fa, introdussero la raccolta differenziata nella mia città avevo giurato che mai e poi mai mi sarei piegato alle sue regole. Ma come! Mi devo tenere tutta quella mondezza in casa mia? E dove la metto? E già m’immaginavo la casa piena di bidoni e di buste di tutti i colori, in veranda, nel sottoscala, nel balconcino, persino nelle camere da letto… Per non parlare di un costante e fastidioso volo di gabbiani intorno e sopra la mia casa, dei topi e dei loro amici gli scarafaggi... E poi è successo quello che doveva succedere: piano piano mi sono adattato, ne ho capito le ragioni, la profonda e dolorosa filosofia. Sono diventato un esperto in materia, una specie di Guru di quartiere a cui i vicini vengono a chiedere consiglio. E io che spiego, illustro, mostro assumendo un atteggiamento cattedratico. E mi dovreste vedere il venerdì pomeriggio, la vigilia della raccolta generale, quando sistemo i tetrapak insieme alla carta e lego il tutto formando un parallelepipedo perfetto, quando do un’ultima schiacciatina alle bottiglie di plastica già precedentemente risciacquate, quando infilo le buste piccole di secco in un meno ingombrante bustone trasparente! E l’umido. Io sono il re dell’umido. Che dico il re: sono l’imperatore dell’umido!

E' successo che me ne sono andato in vacanze, lontano da casa. Al nostro arrivo nel villaggio vacanze, sorpresa, mi accorsi che lì non si faceva la raccolta differenziata. Sotto il lavello c’era una pattumiera e soltanto quella. Fuori dal nostro appartamentino, a una trentina di metri, il classico cassonetto verde. Improvvisamente, mi sono sentito trasportato indietro di tre anni. Ho guardato mia moglie, i miei figli. Nei loro occhi la stessa domanda: “Come farà ora senza differenziata?” E subito i morsi dell'astinenza. Ero appena arrivato e la differenziata mi mancava da morire. Non sapevo come fare, come attenuare quell’angoscia che si era impossessata di me. Avevo già cominciato a contorcermi quando ebbi un'idea: la parte destra della pattumiera l’avrei dedicata al secco, la sinistra all'umido, la parte Nord alla plastica e la parte Sud al vetro. Non so se siate d’accordo con questa tecnica di sopravvivenza ma con me ha funzionato. Cercammo in fretta e furia qualcosa da buttare nei bagagli. Niente. Tornai in macchina. Ah, ecco! la bottiglia d’acqua minerale che ormai era quasi vuota. Bevvi l’ultimo sorso e corsi a buttare il mio primo rifiuto. Ero felice… Lo vedevo dagli occhi dei miei. Dulcis in fundo, avevo casualmente nei miei bagagli un'odorosissima busta per l'umido, sapete quelle buste biodegradabili fatte col mais o qualcosa del genere. Non avete idea del buon odore che emanano! Quella notte me la sono messa sul cuscino...
Me la sono messa sul cuscino, l’ho arrotolata e me la sono fumata.

domenica 28 agosto 2011

Citazione





"Le donne che tirano fuori gli artigli cambiano più spesso le lenzuola"

Charles Baudelaire

domenica 21 agosto 2011

Se mettessero...







"Se mettessero tutti i chili persi dai miei clienti in un transatlantico, affonderebbe."

La mia dietologa

venerdì 12 agosto 2011

Pirati

Il Black Hawk aveva gettato l’àncora in una piccola insenatura dell’Isla Caiman come in attesa dell’ennesima nave da rapinare. Era un brick veloce, maneggevole, 54 cannoni, fatto per l’inseguimento, l’abbordaggio e l’affondamento delle sue prede. Il nome del suo comandante, Joe Blood, sapeva di salsedine e di sangue ed era perciò tra i più temuti del Mare dei Caraibi. Aveva al suo attivo una cinquantina di abbordaggi, tredici dei quali a navi della flotta di sua maestà reale d’Inghilterra e cinque a bastimenti della marina militare francese. Gli davano così la caccia  sia le potenti navi da guerra inglesi che le francesi per non parlare dei corsari assoldati dalle due nazioni nemiche, ma a ogni scontro ne usciva vittorioso e con pochi danni: l’albero d’artimone spezzato, la vela di mezzana ridotta a uno straccio, una falla da tappare, una decina di morti, niente che non si potesse riparare o rimpiazzare.
Ora era disteso, dolorante ma in gran parte incosciente, su quello che si temeva diventasse il suo letto di morte.
Il medico di bordo, un po’ meno sbronzo del suo solito, uscì dalla camera chiudendo rumorosamente la porta dietro di lui quando si sentì fare la fatidica domanda.
“E allora, come sta quella carogna, dottore?” La voce aspra proveniva da un angolo oscuro della stanza, dietro il denso fumo di un sigaro cubano. Il medico di bordo riconobbe la bandana rossa e la benda nera sull’occhio sinistro. Tutt’intorno, come nella camera, la parte di bottino spettante al comandante, pari a due volte quella di ogni singolo membro dell’equipaggio così come prevedeva il codice della pirateria: piccole casse piene di monete e gioielli, armi di alta fattura, tra cui coltelli, spade, archibugi, appartenute a prestigiosi nemici,  gabbie e trespoli per variopinti uccelli esotici per i quali Blood nutriva una forte passione, in particolare modo per i pappagalli, tappeti, veli, tessuti pregiati, barili di olio sottratte alle baleniere del re che non avevano trovato posto nella stiva, oggetti che testimoniavano della costante esposizione al pericolo e alla morte del comandante e del suo equipaggio.
“Mi rincresce parlare in questi termini ma devo dire le cose come stanno…”
“Sputa il rospo, dottore.“
“Il comandante si trova più di là che di qua e solo un miracolo potrebbe salvarlo. Le sue ferite sono molto profonde ma non sono solo quelle.”
“C'è dell'altro?”
“Forse è tempo che il comandante si dia una calmata. E' vecchio e ammalato... Ha abusato del vino e del rum delle peggiori cantine, troppe orge…”
“Sarà… Può fare qualcosa per lui?”
“Poco e niente. Se supera la notte sarà lui a fare qualcosa per se stesso. Dovrà ammainare la bandiera nera, scegliersi un buon porto, restarci e soprattutto condurre una vita più frugale.”
Il medico di bordo si alzò e si apprestava a lasciare la stanza. Nel mentre, il pappagallo, pensoso, risalì sul suo trespolo, diede un’ennesima tirata al suo sigaro cubano e mormorò: “Lui in un porto? Ma non mi faccia ridere, dottore…”

giovedì 11 agosto 2011

Uomini anonimi

Gli uomini che decidono un bel giorno di radersi completamente i capelli credendo di risolvere definitivamente i problemi di un’incombente calvizie non sanno quel che fanno. E’ vero, spariranno per sempre baie di Hudson e circhi di Gavarnie  ma i problemi creati da quell’irresponsabile gesto saranno ben maggiori di quelli risolti. Questi uomini non pensano alle mille difficoltà della gente attorno a cominciare dalle mogli. Perché?
Perché diventano tutti uguali. Avete mai messo dieci teste rasate una vicina all’altra? Impossibile distinguerle. Un pelato rassomiglia a un altro pelato come un uovo a un altro uovo. Sì, si può sempre chiamarli per nome ma quando una moglie in una piazza affollata chiama “Mario!” e sono in dieci a rispondere che fa? Unica soluzione: marcare il proprio marito a uomo, oppure optare, come fanno in tante, per il nastrino rosso al polso, o per il blu, o obbligare il marito a portare sempre con sé il telefonino ma quando questo squilla, puntualmente, squillano pure quelli degli altri… Senza considerare che la maggior parte degli uomini non sopportano di essere marchiati in tal modo e eliminano, perfidi, ogni segno distintivo per tuffarsi nelle incommensurabili gioie del più totale anonimato. Che pagano.
L’anno scorso, su una spiaggia affollata della Costa Smeralda, una signora aveva deciso di farsi il bagno da sola pensando che al ritorno avrebbe riconosciuto il consorte dal nastrino e dal telo sul quale era sdraiato. Malauguratamente, la corrente la trascinò diversi metri più a destra senza che se ne rendesse conto. Quando tornò sulla spiaggia guardò l’uomo davanti a lei: nastrino, telo di mare, tutto coincideva… Tutto tranne una cosetta. Ma non ci fece troppo caso…

giovedì 4 agosto 2011

La folle corsa della mattina




Che ora è? Non è possibile! Sveglia! Tutti in piedi! Calma, prima mi preparo un buon caffè. Ok, va bene, il latte per i bambini, i cornflakes. Il bagno. Prima io! Sbrigati!. Intanto papà vi stira la camicia e il grembiule, i pantaloni te li stiri tu! Si può andare in bagno? Velocemente barba e tutto il resto. Vestirsi. E’ possibile che non abbia dei calzini da mettermi? Guarda bene nel comodino! Ma guardami questo che si è messo le scarpe a rovescio! Le chiavi di casa dove sono? Questa volta ti sei superata: riuscirà quest'uomo a trovare le chiavi di casa prima di uscire? E quelle della macchina? Ma se ho guardato venti volte sul tavolo! Ah! Avevi ragione, erano lì! Sbrigatevi! No! Ma devi sempre fare la pipì quando stiamo uscendo? Lo zaino, non dimenticatevi lo zaino! Oggi c’è traffico sulla strada… Bravi bambini studiate e fatele nere le vostre maestre...
Alle undici, in ufficio, pausa caffè-bagno. Solo allora mi accorgo di essermi messo le mutande di mia moglie.

lunedì 1 agosto 2011

Ma...


Vedete, quando si tratta di entrare in acqua, al mare, sono tutto tranne che un leone. Non sono e non sono mai stato, neanche nella mia più agitata adolescenza, uno di quei tuffatori impavidi che si buttano tutto in una volta. Al contrario. Prima immergo i piedi, poi piano piano le caviglie, quindi, avanzando piano piano, arrivo sino alle ginocchia e così via fino alla totale e sofferta immersione che inevitabilmente corrisponde col tramonto. La filosofia che sta dietro questo comportamento, che peraltro mi sembra piuttosto diffuso tra i miei coetanei, è antitetica alla cosiddetta full immersion e si basa principalmente sulla teoria del progressivo adattamento del corpo alla temperatura esterna. Quello che ho tuttavia notato, correggetemi se sbaglio, è che se la parte immersa si adatta al freddo dell'acqua per quella che rimane ancora fuori non è così. Anzi, direi che immergere le parti rimanenti è sempre più difficile, e in una proporzione tale da farmi ritenere che una stessa quantità di dolore si concentri su una superficie ogni volta più piccola. Sarebbe interessante a questo proposito elaborare una funzione matematica o un qualche algoritmo che ci traduca l’esatta misura di aumento del dolore e la renda comprensibile a chiunque spiegandoci una volta per tutte perché mettere la testa sotto acqua è molto più arduo che per i piedi. Da qui la mia domanda: ma… la quantità di dolore è costante nell’universo?

domenica 24 luglio 2011

Maritini


Mi sono sempre chiesto se fosse pericoloso svegliare i maritini addormentati in piedi dietro i loro carrelli mentre le mogli sono in giro per i reparti a fare la spesa. In un supermercato della mia città, quando questo accade, non li svegliano affatto. Semplicemente, all'inizio della corsia mettono un cartello d'avviso: "Si prega di parlare a bassa voce".
Al ritorno delle mogli, se i mariti dormono ancora, sostituiscono il carrello pieno con uno vuoto, gli mettono delle cuffie alle orecchie e li lasciano lì a fissare lungamente una scatola di fagioli o di mais Bonduelle. Alcuni, i più avvenenti, ovviamente dietro consenso delle mogli, sono delicatamente caricati su un muletto e portati, completi di carrello, nelle vetrine dove vengono vestiti con i capi del negozio stesso e usati come iperrealistici manichini. A Natale, ormai fa parte delle usanze, per la gioia dei bambini e di chi non sa rinunciare alle tradizioni, i maritini si trasformano in pastorelli, re magi e San Giuseppe e compongono un bellissimo presepe vivente dove i carrelli diventano asini, buoi, pecore e, ovviamente, mangiatoia.
 Quando è ora di chiusura, abbassano le serrande, lasciano accese alcune luci, e ci si vede il giorno dopo. La mattina seguente tornano le mogli, si presentano alla cassa con lo scontrino della spesa del giorno prima, e, come fossero i figli all’accoglienza della scuola elementare, se li ritirano.

giovedì 21 luglio 2011

Retromarcia


Avete presente le manovre per uscire da un parcheggio a spina di pesce? In teoria niente di più facile: si indietreggia un po’ e quando si è sicuri di non toccare le macchine di destra o di sinistra si sterza ed eccovi in linea con la strada. Nella pratica però le cose non si svolgono mai così. Siete entrati in macchina, avete acceso il motore, messo la retromarcia e non appena accennate a indietreggiare ecco che proprio dietro di voi si apposta una signora col pancione. La stessa donna col pancione che vi ha bloccato per un’ora il mese scorso. Aspettate che la signora si decida ad andarsene e, miracolo, lo fa. Pia illusione: le dà il cambio una mamma col passeggino. Seguono un tipo con la gamba ingessata, altre donne incinte, un’altra col passeggino, un bimbo in bici, delle famiglie intere in uscita domenicale anche se siamo di martedì, delle scolaresche, dei nonni, delle suore, dei frati, una processione, un funerale, dei girotondini, dei manifestanti che stanno decidendo se fare o no un sit-in proprio lì, intere comitive di turisti della terza età. Voi non vi siete ancora mossi di un millimetro e la folla continua ad affluire. Esasperati spegnete il motore e scendete di macchina. Più in là c’è la fermata del pullman. Lo prendete. Per la decima volta consecutiva, lo prendete.
Il giorno dopo comprate il quotidiano locale. Cercate la pagina della vostra città. La trovate. Finalmente le cifre ufficiali. C’è scritto: “Retromarcia di Piazza Mannu: 50.000 secondo i sindacati, 2.000 secondo la questura.”

mercoledì 13 luglio 2011

Transformation


Espletate le formalità doganali, eccoci finalmente in aereo. Si sistemano i bagagli, si raggiunge il proprio posto e una volta seduti ci si lascia cullare da una dolce pluralità di voci. I genitori chiamano i figli, i figli i genitori, qualcuno chiede se il posto vicino al vostro è libero, uno ride, uno piange, uno impreca, uno parla più forte che non ti sento, un altro quanto tempo dura il viaggio, a che ora arriviamo o lo vuoi un biscottino. Il tutto nella vostra lingua, col vostro stesso accento e i vostri gesti. Si direbbe una numerosa delegazione o una piccola invasione barbarica. Solo le hostess si ostinano a parlare in inglese.
Si parte. I vicini parlano con i vicini, ci si scambiano dei consigli, dei trucchi, si impara un kit di sopravvivenza linguistica last minute: “How much”, “Mind the gap”, “Keep on the right” e “Way out”. E poi ognuno per conto suo. La signora davanti guarda estasiata dal suo finestrino, la persona con cui conversavi poco prima è sprofondata nel sonno, il vecchietto del primo posto sta russando. Si spengono voci, accenti, inflessioni e dialetti. Fuori le nuvole rassicuranti, dentro le hostess che chiedono “Any rubbish?”
A poco a poco il risveglio. “What time is it?, “keep your belt fasten”, "Ladies and gentlemen..." I bambini improvvisamente si chiamano John, jack, Jane o Mary. Le parole non hanno più la musica e il ritmo di prima. Ma come? Dov’è finita la ricetta del pesto alla genovese? Dov'è finito Totti? Parlatemi ancora di Berlusconi e del ponte di Messina. Voglio sentire la mia lingua…
Col cavolo che la sento! La delegazione o gli invasori di prima sono ora dei perfetti londinesi. Chi è dello Strand, chi del Chelsea, chi del Kensington. In ansia per quanto ti sta per accadere, recuperi i bagagli, ripassi la dogana e ti ritrovi solo che non capisci una cippa. Ad un tratto la salvezza: vedi uno che ha viaggiato con te. E’ della tua città. Ti sbrighi per raggiungerlo ma è già stato inghiottito dalla folla.

martedì 5 luglio 2011

La mia iniziazione

La parola “iniziazione” è una di quelle che mettono paura e io una certa paura ce l’ho. Non per cose serie, questo no, ma piuttosto per delle piccole inezie che comportano delle grandi responsabilità.
Io rispetto ai miei suoceri, sono quello che nei giornaletti del capitan Miki avrebbero definito un “gringo” nel senso che loro sono napoletani e io no. Quando durante le ferie mi capita di essere ospitato a casa loro avvengono delle cose curiose che vi voglio raccontare. Tutte le mattine, appena alzato, sono solito prepararmi il caffè. A casa mia però. Lì, invece, quando mi alzo mi accorgo che i miei suoceri mi hanno preceduto da un pezzo. Sento nell’aria un celestiale profumo di caffè che proviene dalla cucina la cui porta rimane chiusa. Ora, è proprio questo il problema: quando preparano il caffè chiudono sempre la porta. Me ne sto alcuni minuti ad aspettare in sala che il rito si compia fino a quando la porta non si apre e mi servono in una tazzina quello che chiamano con deferenza mista a meraviglia “O’ cafè”. Apparentemente non ci sono misteri: sul fornello spento la solita moka tre tazze e niente più. Ma sono più che sicuro che quando la porta si apre ogni indizio sia stato rimosso.
Credo tuttavia di essere in qualche modo fortunato. Mi spiego. Al piano di sotto c’è un gringo che come me subisce l’allontanamento dalla fucina del mistero. Addirittura aspetta sul pianerottolo che tutto sia pronto. L'altro giorno, vedendolo per l'ennesima volta seduto sulle scale, sconsolato, mi sono fatto coraggio e gli ho rivolto la parola. Mi ha raccontato di uno che aspetta in macchina e di un altro che viene sistematicamente bendato. Io che rimango davanti alla cucina, mi ha detto, è raro e vuol dire solo una cosa: che si fidano e che un bel giorno avrò il diritto di entrarvi perché si avvicina per me il giorno della grande iniziazione e mi devo preparare.
Non avevo mai considerato la cosa in quest'ottica. Voi cosa pensate che mi succederà?

martedì 28 giugno 2011

Bagagli

Un tempo le valigie degli emigrati sardi, nonostante il divieto assoluto affisso all’ingresso delle dogane, venivano riempite di ogni ben di Dio, tra cui le nostre migliori salsicce, interi agnelli o maialetti cotti, o da cuocere e ancora avvolti nella carta oleata della macelleria. Non mancavano le forme di formaggio, le bottiglie di buon vino, di Villacidro o di Marsala che invariabilmente si rompevano prima di arrivare a destinazione. Ma i doganieri chiudevano sempre un occhio e si accedeva sul ponte della nave tirando ogni volta un gran sospiro di sollievo.
Oggi, la parola “emigrato” non fa più parte del nostro vocabolario, il sottovuoto ha quasi del tutto sostituito la carta oleata e l’aereo la nave, ma il traffico è sempre quello. E se nei porti continuano a non degnarti neanche di un’occhiata, in aeroporto, l’addetto ai controlli radiogeni dei bagagli da stiva, ilare, vede sfilare sul nastro trasportatore intere greggi di agnelli, famiglie di maiali e maialetti al gran completo, abilmente adagiate tra gli indumenti intimi e i maglioni. E sono salsicce di Irgoli, trecce e trattalias, casizoli di Santulussurgiu, seadas ancora congelate, bottiglie d’olio di Ittiri, di Mirto o di Nepente di Oliena.
E ogni volta lo stesso sospiro di sollievo.

venerdì 24 giugno 2011

Samatza Croccada

Ci sono dei paesi immobili per l'eternità. Il mio, a detta dei miei compaesani, è uno di questi: mai nulla vi è successo e mai nulla vi succederà.
La realtà è ben diversa. Ne sono successe di cose ma non tutti se ne accorgono, e di queste vi voglio parlare. 
Un tempo, nei pomeriggi lunghi e caldi dell'estate, i giovani si radunavano all’uscita del paesino di Samatza e, discorrendo discorrendo, allungavano il passo fino all’ingresso di Croccada dove passeggiavano le coppiette e le ragazze da marito. Strada facendo, salutavano i ragazzi di Croccada, i quali andavano a loro volta a corteggiare le ragazze di Samatza. Era così da sempre: i giovani di Samatza sposavano poi le ragazze di Croccada e quelli di Croccada le ragazze di Samatza. 
Le nuove famiglie lasciavano il tetto paterno e costruivano casa lungo la strada che collegava i due paesi. Samatza e Croccada si svuotarono progressivamente dei loro abitanti prima di essere definitivamente abbandonati. Una leggenda dice che l’attuale paese di Samatza Croccada sia stato costruito con le pietre delle rovine dei due paesi.
Oggi, quando i giovani del paese si sposano, si fanno la casa in periferia, riportando le pietre degli antichi villaggi là dove abitavano i loro antenati, e quando anche l’ultima pietra sarà rimessa al suo posto di Samatza Croccada rimarrà soltanto un vago ricordo.

lunedì 6 giugno 2011

La mia prima volta in TV

Mai stato in televisione? Beh, sì, una volta ma mi è bastato per il resto dei miei giorni.
Era tanto tempo fa – non avevo ancora famiglia e portavo i baffi – all'occasione di una fiera paesana nella quale erano convenuti molti agricoltori della zona a proporre i loro prodotti. Preciso che non ho niente a che vedere con l'agricoltura e che ci andai per curiosità tanto per farmi un giro quella domenica. Era una fiera direi standard con difficoltà di parcheggio, volantinaggio all’ingresso, assaggi volanti, trattori, animali vaganti, stand e bancarelle. Circolando tra queste non seppi resistere a una bella cassetta di cipolle che costavano poco e niente. Pensandoci bene mi chiedo ora cosa ne potevo fare di una cassetta di cipolle visto che non andavo matto per tale ortaggio. Altri tempi, altri ragionamenti. Mi beccarono sul fatto quelli di Telenova. Telecamera e microfono puntati. Parte l'intervista. Subito interrotta. Mi chiesero se potevo mettermi la cassetta in spalla e non seppi dire di no anche se al momento non avevo capito il motivo di tale richiesta. Si riparte e seconda interruzione: questa volta mi misero in braccio un sacco di patate gentilmente prestato dal contadino di una bancarella vicina. Riparte l’intervista con terza interruzione: “Scusi, ma lei il sardo lo sa parlare?” “Sì”, risposi. “Ha niente in contrario se le facciamo l’intervista in sardo?” Al punto in cui mi trovavo potevo solo accettare. Per non portarvi alla lunga, tra un interruzione e l’altra mi ritrovai con una cassa di cipolle in spalla, un sacco di patate in braccio, un paio di stivali in gomma ai piedi e in groppa a un asinello grigio: non vi dico il successo il giorno dopo con i miei alunni.

venerdì 3 giugno 2011

Il mio alter ego

Il mio alter ego non l'ho mai visto ma c'è gente che giura di averlo incontrato dall'altra parte della città. Mi hanno pure detto il suo nome perché si tratta di un noto bombolaio. “Perché non vai a trovarlo?” mi chiedono con sempre maggiore insistenza. Ma io - sapete come sono fatto -  ho una certa reticenza ad andare da lui perché sono sicuro che mi rassomigli ma temo di ritrovarmi con la mia caricatura, o peggio ancora di essere la sua di caricatura. Avete presente quegli incontri combinati tanto per farsi una bella risata alle spalle degli altri? Allora mi dico "ognuno al suo posto che è meglio così". Me ne rimango qui, a distanza, sicuro che lui farà altrettanto. E ti pareva che proprio ora non bussavano alla porta…

sabato 7 maggio 2011

Pescivendole

“O ‘jente chi vole pesciiii? Ma chi mazzardi!”
Quando sentiva quel grido, Sassegnu, il mio gatto tigrato, mi guardava con aria di supplica, poi si strofinava contro la mia gamba e cominciava a miagolare ininterrottamente. Tanto faceva che dovevo aprirgli la porta.
“E teniteli sti gatti!” Era una delle due pescivendole vestite di nero che aveva appena posato l’enorme cesta rotonda piena di pesci che portava in equilibrio sulla testa e la faceva sembrare a un piccolo messicano sotto il suo sombrero. Le due ceste di vimini erano disposte su un muretto ai lati della fontana dove la seconda pescivendola si lavava le mani e risciacquava due coltellacci che immaginavo già affilati ma che continuava ad affilare ulteriormente sfregando le due lame l’una contro l’altra. L’esercito di gatti che circondavano la pescheria ambulante non considerava questa operazione come una minaccia, anche perché le due signore sorridevano e non sembravano affatto dispiaciute della loro presenza. Forse i gatti erano un po’ troppi, ecco tutto. Trenta, forse quaranta, alcuni del vicinato, altri provenienti da quartieri più lontani, tutti richiamati dalla scia di odore che il pesce inevitabilmente lascia al suo passaggio. Ai posti d’onore, i più grossi, tra cui Sassegnu, uno dei più temuti e rispettati a causa del suo aspetto da filibustiere, dietro, dei gatti dall’aspetto meno minaccioso, che probabilmente passavano la vita sopra le ginocchia dei loro padroni, e dietro ancora, i più timorosi, alcuni solo intenti a giocare tra di loro. Le donne del vicinato circondavano a loro volta le ceste, disperdendo per un attimo i felini, e cominciavano a chiedere il prezzo del mazzardo, o del polpo, oppure della zuppa di pesci. Fingevano di trovare tutto caro ma alla fine compravano sempre, anche perché cosa vuoi che facciano il venerdì se non i pesci? E poi c’erano quei pesci di scoglio, ottimi per la zuppa di pesce, che non costavano niente. Le pescivendole parlavano a voce alta, un po’ per rispondere alle domande delle loro clienti, un po’ per farsi sentire dalle donne distratte o da chi preferiva rimanersene dietro le gelosie. Mentre parlavano mettevano sul piatto di una vecchia stadera tre o quattro pesci per volta, facevano scivolare il peso sull’asta, attendevano un attimo che la bilancia fosse in equilibrio e dichiaravano: “Buon peso!”. Poi prendevano alcuni mazzardi per la coda, li poggiavano su un foglio di giornale bello aperto e gli facevano il trattamento completo: con lo stesso coltello gli toglievano le squame da una parte e dall’altra, lo sventravano, lo risciacquavano sotto la fontana , lo incartavano e consegnavano il tutto alle clienti che si facevano un piacere di pagare con un biglietto che ancora non aveva odore. Poi prendevano il foglio di giornale pieno di squame e di viscere e lo offrivano ai gatti che aspettavano frementi. Era il momento preferito del mio Sassegnu il quale dimostrava ulteriormente che i gradi se li era meritati. In un attimo spariva tutto. Le pescivendole dovevano solo allontanare qualche gatto che ancora leccava il foglio, appallottolare quello che ne restava e buttarlo nel secchio dei rifiuti più vicino. Si lavavano le mani, risciacquavano i coltelli e la stadera, che disponevano nella cesta , poi si rimettevano la cesta in testa e partivano per fare tappa alla prossima fontana a trenta, quaranta metri più lontano.
“O ‘jente chi vole pesciiii? Ma chi mazzardi!”
I gatti, questa volta erano proprio quaranta, forse cinquanta. Si dice che quando facevano rientro al porto i gatti fossero almeno cento e che una cosa era certa: lì di topi non ce n’erano.

giovedì 5 maggio 2011

Nido di rondine


Visualizzazione ingrandita della mappa



Murato è un piccolo paese dell'Alto nebbio dove regna la pietra grigia, che costituisce la materia prima della casa còrsa e si rivela nei muri scrostasti dal tempo, nei balconi e sui tetti ricoperti di grosse lastre d’ardesia, nel passamano e nei gradini delle scale esterne che portano al primo piano delle abitazioni tradizionali.

Ghjisè Raffalli, che da trent’anni aveva lasciato Murato per la città di Bastia, aveva deciso di trascorrere gli anni che gli rimanevano da vivere, e di morire, nel paese che gli aveva dato i natali, regalato un’infanzia felice e presentato il primo amore. Così se n’era tornato nella casa dei suoi, ormai abbandonata, ma che con poca spesa era riuscito a rendere di nuovo abitabile. Gli avevano offerto di eseguire i lavori gratuitamente, a titolo di vaga parentela e di amicizia, a nome di un passato che riemergeva a ogni parola pronunciata, a ogni inflessione della voce, a ogni sguardo, a ogni gesto. Ma Ghjisè era orgoglioso e testardo e preferiva non dover niente a nessuno per non essere un giorno rimproverato di non avere pagato i suoi debiti. Era vedovo e non aveva lasciato eredi, o forse sì, ma indirettamente, perché suo fratello maggiore, ormai defunto, aveva famiglia in continente.

Aveva settant'anni, e tutto sommato li portava bene, ma era stanco e malinconico. Lui diceva di essere ammalato, forse più per essere compatito nella solitudine nella quale versava da troppo tempo, che per vera convinzione di esserlo. Aveva sentito parlare di una guaritrice, una certa Giuditta Poggioli, quarant’anni o poco più, vedova, che a quanto pareva veniva da Rutali, il paese vicino, dove i suoi amuleti avevano dato sollievo a molti ammalati. Non che Ghjisè credesse fermamente che gli esseri umani fossero in grado di operare delle miracolose guarigioni, il fatto è che in cuor suo voleva crederci, come aveva sempre voluto credere nei poteri dei mazzeri e dei murtulaghji.

Era una domenica mattina del mese di aprile. Ghjisè si era rasato, aveva pettinato i suoi radi capelli bianchi e messo i vestiti migliori. Tutto sommato, era ancora un bell’uomo, Ghjisè. Sapeva che la guaritrice non riceveva la domenica ma volle lo stesso presentarsi a casa sua eventualmente facesse un’eccezione. Si avviò sulle lastre grigie delle vie del paese. In pochi minuti, giunse davanti all’abitazione della signora Poggioli. La vide seduta sull’ultimo gradino della scala esterna. Aveva qualcosa di triste, infelice, negli occhi. Guardava lontano, come in attesa di qualcuno, forse di quel qualcuno che ora era proprio sotto di lei e di cui non si era ancora accorta. Aveva una lunga gonna nera, e nient’altro sotto la gonna. Le gambe erano aperte, come per prendere il fresco, e lasciavano vedere quel che a Ghjisè sembrò un nido di rondine, di quei nidi che stanno sotto gli spioventi dei tetti o sotto i balconi. Ghjisè non disse nulla, non si schiarì neppure la voce. Rimase semplicemente lì, interdetto, a guardare. Lei mise parecchio tempo prima di avvertire la sua presenza. Quando abbassò lo sguardo verso di lui, il suo volto arrossì improvvisamente.

Quella domenica fece un’eccezione.

venerdì 22 aprile 2011

questo testo sono state offerte anche con la collaborazione di vita da bullecco

1non fumare
2non buttare plastica e vetro
3rispettare le piante
4costruire meno centrali nucleali
5usare meno possibile la macchina
6non sprecare i cibi buttandoli :dalli al tuo animale domestico
7 prova a fare la raccolta differenziata
8 distingui tra carta ,umido, secco ,cartone ,plastica e vetro .
9 per l ‘ umido usate buste biodegradabili
10 quando fai la spesa compra pacchetti che contengono meno cose da gettare
11la terra può essere rifatta con  un facile compost
12 l ‘ acqua che dalla bottiglia volete gettare  potete darla alle piante
13ovviamente non diventerete come Terzigno ,tutta sta spazzatura .
14non catturare gli animali e poi venderli perché è brutto,
16 non prendete uccelli in via della estinzione ,perché la specie è già poca ,e se la facciamo ancora di più…
17 tutti i materiali speciali come batterie devono essere buttati in contenitori appositi che troverete in negozi elettronici o in farmacia.
18 nei campi dei fiori belli e rigogliosi non buttate spazzatura
19 nei fiumi non buttate niente
20 avvolte dalle fognature lo sporco si libera al mare , inquina molto
21 infatti talvolta si formano fiumi fatti di succhi dei materiai inquinanti ,che si sono sciolti anche alcuni in 100 anni .
22 il cibo non dovete gettarlo come dicevo prima ,perché si può dare a degli animali domestici. L ‘ uomo fa molta fatica sprecata per niente  se sprechiamo i cibi.
23la c’ingomma possono restare sui 5 anni .
24  lasciate che le api vadano sui fiori a prendere il nettare e a prendere il polline ,perché il polline cadendo ,fa più fiori ,oltre al seguente.
25  le pioggia dovrebbero essere raccolte in bacini artificiali che poi la purificano e la scaricano ben pulite in mare.
26 i giornali possono essere riciclati ma con sostanze sempre inquinanti.
27 usate meno la televisione
28 camminate di più
29 una volta ogni tanto si potrebbero spazzare via le sporcizie dalla terra
30 provare a fare un bosco artificiale e a lasciarlo così 
31 usare meno carta
32 mangiare meno zucchero
33 usare meno dentifricio : alcune montagne cadono per  la prelevazione i queste sostanze .
34 quando spendete i soldi usate banconote per risparmiare materiali dai !meglio usare  6 banconote da cento o 60.000 monete di ferro ?
35 i vestiti devono essere trattati bene
 36 usare meno profumi
37 usare meno repeller di zanzare
38 fare negozi un po’ meno grandi per usare meno cibo e per sprecare di meno .
39 usate in Emilia Romagna macchinette che ti danno un centesimo per buttare una bottiglia.
40uste meno pippe
41  mangiate meno pesci
42 a causa del ‘ uomo la natura è caduta ,per questo usate meno profumi
44le chitarre non devono essere buttate a casaccio
45 il ferro può diventare una lattina di coca cola .
46 usate libri e quaderni riciclati più spesso
46 usate più spesso i semi e piantateli
47 nella differenziata dovete chiedere nei secchi l spazzatura ,non lasciacela a disposizione libera ,
48 usate meno accendini
49 i contenitori devono essere di cartone
50 un rottame può diventare una moto o una macchina
51 dobbiamo accorgerci dei nostri sprechi :pensate…
52Comprate meno orologi da taschino
53 usate pannelli a energia solare
54 usate luci a energia solare
55i fili possono essere maggior mente inquinanti .
56 usate poche mattonelle
57 comprate televisioni a meno spreco .
58usate meno yo-yo
59 mangiate meno briosce
60usate meno stuzzicadenti e gomme

sabato 26 marzo 2011

Asparagi

- A quanto gli asparagi?
- Un mazzo 6 €, due mazzi 10 €. In pratica il secondo lo paga solo 4 €.
- Allora mi dia il secondo.

lunedì 14 febbraio 2011

Stazione di Silì

- Buongiorno... Due scanni sulla Freccia Sarda per Macomer, per piacere...
- Sì, prende la Freccia di che ora?
- Delle otto e mezza.
- Ora vecchia o ora nuova?
- Ora vecchia.
- Spero rimangano degli scanni... Ah, ecco! Quanti anni ha il bambino?
- Ne ha solo otto ma ne dimostra venticinque.
- Allora ha diritto a una riduzione del venticinque per cento... Vagone fumatori?
- Sì!
- A fogu a intru o fogu a foras?
- A fogu a intru. Posso pagare con la mia Carta Nuraghe?
- Certamente!
- Ecco qua!
- Grazie e arrivederci!

venerdì 28 gennaio 2011

La Légende de la Nonne (Victor Hugo — Odes et Ballades)





Venez, vous dont l'œil étincelle,

Pour entendre une histoire encor,

Approchez : je vous dirai celle

De doña Padilla del Flor.

Elle était d'Alanje, où s'entassent

Les collines et les halliers. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Il est des filles à Grenade,

Il en est à Séville aussi,

Qui, pour la moindre sérénade,

A l'amour demandent merci ;

Il en est que d'abord embrassent,

Le soir, les hardis cavaliers. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Ce n'est pas sur ce ton frivole

Qu'il faut parler de Padilla,

Car jamais prunelle espagnole

D'un feu plus chaste ne brilla ;

Elle fuyait ceux qui pourchassent

Les filles sous les peupliers. -

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Rien ne touchait ce cœur farouche,

Ni doux soins, ni propos joyeux ;

Pour un mot d'une belle bouche,

Pour un signe de deux beaux yeux,

On sait qu'il n'est rien que ne fassent

Les seigneurs et les bacheliers. -

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Elle prit le voile à Tolède,

Au grand soupir des gens du lieu,

Comme si, quand on n'est pas laide,

On avait droit d'épouser Dieu.

Peu s'en fallut que ne pleurassent

Les soudards et les écoliers. -

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Mais elle disait : "Loin du monde,

Vivre et prier pour les méchants !

Quel bonheur ! quelle paix profonde

Dans la prière et dans les chants !

Là, si les démons nous menacent,

Les anges sont nos boucliers !" -

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Or, la belle à peine cloîtrée,

Amour dans son cœur s'installa.

Un fier brigand de la contrée

Vint alors et dit : Me voilà !

Quelquefois les brigands surpassent

En audace les chevaliers. -

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Il était laid ; des traits austères,

La main plus rude que le gant ;

Mais l'amour a bien des mystères,

Et la nonne aima le brigand.

On voit des biches qui remplacent

Leurs beaux cerfs par des sangliers. -

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Pour franchir la sainte limite,

Pour approcher du saint couvent,

Souvent le brigand d'un ermite

Prenait le cilice, et souvent

La cotte de maille où s'enchâssent

Les croix noires des templiers. -

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







La nonne osa, dit la chronique,

Au brigand par l'enfer conduit,

Aux pieds de sainte Véronique

Donner un rendez-vous la nuit,

A l'heure où les corbeaux croassent,

Volant dans l'ombre par milliers. -

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Padilla voulait, anathème !

Oubliant sa vie en un jour,

Se livrer, dans l'église même,

Sainte à l'enfer, vierge à l'amour,

Jusqu'à l'heure pâle où s'effacent

Les cierges sur les chandeliers. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Or, quand, dans la nef descendue,

La nonne appela le bandit,

Au lieu de la voix attendue,

C'est la foudre qui répondit.

Dieu voulut que ses coups frappassent

Les amants par Satan liés. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Aujourd'hui, des fureurs divines

Le pâtre enflammant ses récits,

Vous montre au penchant des ravines

Quelques tronçons de murs noircis,

Deux clochers que les ans crevassent,

Dont l'abri tuerait ses béliers. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Quand la nuit, du cloître gothique

Brunissant les portails béants,

Change à l'horizon fantastique

Les deux clochers en deux géants ;

A l'heure où les corbeaux croassent,

Volant dans l'ombre par milliers… -

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Une nonne, avec une lampe,

Sort d'une cellule à minuit ;

Le long des murs le spectre rampe,

Un autre fantôme le suit ;

Des chaînes sur leurs pieds s'amassent,

De lourds carcans sont leurs colliers. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







La lampe vient, s'éclipse, brille,

Sous les arceaux court se cacher,

Puis tremble derrière une grille,

Puis scintille au bout d'un clocher ;

Et ses rayons dans l'ombre tracent

Des fantômes multipliés. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Les deux spectres qu'un feu dévore,

Traînant leur suaire en lambeaux,

Se cherchent pour s'unir encore,

En trébuchant sur des tombeaux ;

Leurs pas aveugles s'embarrassent

Dans les marches des escaliers. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Mais ce sont des escaliers fées,

Qui sous eux s'embrouillent toujours ;

L'un est aux caves étouffées,

Quand l'autre marche au front des tours ;

Sous leurs pieds, sans fin se déplacent

Les étages et les paliers. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Elevant leurs voix sépulcrales,

Se cherchant les bras étendus,

Ils vont… Les magiques spirales

Mêlent leur pas toujours perdus ;

Ils s'épuisent et se harassent

En détours, sans cesse oubliés. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







La pluie alors, à larges gouttes,

Bat les vitraux frêles et froids ;

Le vent siffle aux brèches des voûtes ;

Une plainte sort des beffrois ;

On entend des soupirs qui glacent,

Des rires d'esprits familiers. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Une voix faible, une voix haute,

Disent : "Quand finiront les jours ?

Ah ! nous souffrons par notre faute ;

Mais l'éternité, c'est toujours !

Là, les mains des heures se lassent,

A retourner les sabliers…" –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







L'enfer, hélas ! ne peut s'éteindre.

Toutes les nuits, dans ce manoir,

Se cherchent sans jamais s'atteindre

Une ombre blanche, un spectre noir,

Jusqu'à l'heure pâle où s'effacent

Les cierges sur les chandeliers. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Si, tremblant à ces bruits étranges,

Quelque nocturne voyageur

En se signant demande aux anges

Sur qui sévit le Dieu vengeur,

Des serpents de feu qui s'enlacent

Tracent deux noms sur les piliers. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !







Cette histoire de la novice,

Saint Ildefonse, abbé, voulut

Qu'afin de préserver du vice

Les vierges qui font leur salut,

Les prieures la racontassent

Dans tous les couvent réguliers. –

Enfants, voici des bœufs qui passent,

Cachez vos rouges tabliers !









avril 1828

martedì 18 gennaio 2011

Consiglio


Lo vuoi un consiglio? Rimani il coniglio che sei e non cercare mai di diventare umano. E’ troppo complicato. La vita, la gente è troppo complicata e non hai mai punti di riferimento o, se ci sono, sono davvero pochi. Al massimo sono cinque e con quelli ti devi arrangiare. Li vuoi conoscere? Siediti e ascolta:

Quelli col naso a patata dicono la verità

Chiudersi dentro casa solo dopo essere entrato

Una gallina che fa le fusa rimane una gallina

Il treno delle undici passa sempre alle dodici

Quello delle dodici passa sempre alle undici