martedì 30 dicembre 2008

Il canto del cigno

Bombardamento di Bastia il 4 ottobre 1943

"Gli uomini, per la paura che hanno della morte, dicono il falso anche dei cigni; e dicono che, cantando essi il loro canto di morte, così cantano appunto per il dolore della morte" Platone

Dalla collina delle Tourettes il soldato lascia vagare lo sguardo sul convento dei cappuccini, con la sua chiesetta sormontata da un piccolo campanile a velo, sulle rovine della villa dei Giustiniani, dall'altro lato della strada, con il suo immenso giardino che si riversa su una scalinata di terrazze sino alle prime case della città, sul porto nuovo, oltre i flutti di lavagna grigia dei tetti, e, per il possibile arrivo di navi alleate, sulla linea dell'orizzonte. Alle sue spalle, lo spettacolo non è meno grandioso. I pendii, che dal Pigno si rincorrono come i cavalli di una giostra in una folle discesa verso il mare, si fermano all'improvviso ai bordi della pianura dorata dalle acque piatte dello stagno di Biguglia.
Diversi anni dopo, sotto un cielo senza tempo, sotto un cielo senza patria, tre bambini in avanscoperta, proprio davanti all'ingresso della casamatta, ostruito dal tempo e dall'oblio, scorgono un mitra arrugginito e, vicino, un casco bucato da una pallottola nemica.
Il soldato distoglie lo sguardo dall'incantevole bellezza che lo circonda, si china sul foglio di carta e scrive alla sua donna la sua ultima lettera d'amore.

C'erano tutti

C'era pure lo zio Checco. Mi direte: "Che c'entra lo zio Checco?" Non ne ho idea ma c'è mancato poco che venisse con il fiasco di vino e la zampogna. C'era pure la zia Elvira, che s'è fatto la permanente per l'occasione. C'erano il nonno e il nonna, che sembravano ancora più preoccupati di papà e mamma, e c'ero pure io con i miei fratelli, nella sala d'attesa, quando Costanza, mia sorella maggiore, passò la sua prima visita ginecologica.

Santa Maria Capua Vetere, facciamo il 30 dicembre 2008

lunedì 22 dicembre 2008

La crisi

Cara Elena,
come sai la parola che si sente maggiormente pronunciare quest’anno è “crisi”. Il telegiornale non parla d’altro. I miei la usano ogni volta che parlano. Mi hanno fatto notare che nei negozi c’è meno gente che compra regali. Ho sentito dire che, per risparmiare, avrebbero soppresso il nostro trenino di Natale, quello con cui facevamo il giro della città con tutti i bambini e tutto ci sembrava bello. Ti ricordi? Mi dispiaceva soprattutto per mio fratellino che ci teneva tanto. Ebbene, ti scrivo per darti una buona notizia. Da noi, è vero, non succede mai niente, ma questa volta qualcosa di buono è successo: il trenino c’è e ci aspetta.
Vieni quando vuoi.

domenica 14 dicembre 2008

Orologi


Ho conosciuto epoche in cui il tempo contava un po' meno di oggi. Quando chiedevi l’ora non ti davano mai una risposta precisa: erano “quasi le tre” o “le tre passate” e spettava a te immaginare quanti minuti mancassero o quanti fossero passati. Il tempo non aveva lo stesso valore per tutti. Mentre i vecchi la domenica infilavano nel taschino una cipolla che da anni non funzionava più i giovani mettevano fieramente degli orologi da polso a cui davano la corda prima di andare a letto e che al massimo sbagliavano di uno o due minuti al giorno. Era ben poca cosa perché la sera si potevano sincronizzare gli orologi all’ora esatta della TV. Noi, a Bastia, oltre ai canali francesi captavamo anche gli italiani attraverso un’antenna enorme puntata in direzione della Toscana. Prima del telegiornale eravamo tutti lì in attesa dei tre bip, del silenzio e dell’ultimo bip delle otto precise. Alle otto precise, migliaia, forse milioni di pollici pigiavano contemporaneamente su un rotellino. Poi gli indici spostavano le lancette degli orologi a cucù della foresta nera, quelli che non stavano mai zitti e a cui avresti voluto torcere il collo. Avevo un vicino di casa che era ossessionato dagli orologi. Ne aveva di tutti i tipi e in tutti i posti della casa. Quando entravi facevano un rumore assordante di pollaio. Come i una torre di Babele del tempo indicavano tutti un’ora discorde. Ma quando il campanile della chiesa di Saint Jean batteva le ore tutti questi piccoli meccanismi diabolici sembravano zittirsi per dare ascolto alla più autorevole ora di Dio. E poi c’erano i pendoli solitari che singhiozzavano in salone. Non si toccavano mai: si erano fermati un giorno smettendo di indicare l’ora dei vivi…

sabato 6 dicembre 2008

Altra conversazione col Bullecco


Gli stabilimenti del Préventorium di Luri, l’istituto per l’infanzia disagiata, erano disposti su due di tre terrazzi via via più piccoli. Il primo, quello più in alto, era sufficientemente grande da illudere i ragazzini di trovarsi su un campo di calcio. Ai bordi, il refettorio comune, il dormitorio dei maschi e una chiesetta . Il secondo, dove giocavano le ragazze, a cosa non si capiva bene, era decisamente più piccolo. Ai lati, il dormitorio delle ragazze, la lavanderia, le docce e una piccola scuola. Vicino alla scuola il giardino sempre in ordine del temuto direttore dove un certo Fregosi, così si mormorava, depose una mattina di maggio il più grosso dei suoi bisogni riuscendo a fare punire un altro al suo posto. Chi dirigeva il Préventorium doveva avere un cuore freddo, duro e freddo come il marmo della piccola tomba che occupava, solitaria, il terzo terrazzo. Vi era uno stesso nome inciso in quel marmo e in quel cuore: il nome di suo figlio, ucciso diversi anni prima da un rigido e spietato Natale.
Il bimbo chiese alla sua mano, il bullecco, se anche lui avesse i brividi. Il bullecco rispose di sì, che non stava bene, che era stanco. Il bimbo rimise il suo amico sotto le coperte al riparo dal freddo di quella notte di dicembre. La febbre e la voglia di fare pipì lo avevano destato nel pieno di una notte pulsante di sogni. I fratelli Pleuf-dans-l’oeuf sognavano una fantastica evasione oltre il Monte Cacao, oltre la grande e la petite source, laddove i cacciatori con i loro segugi non li avrebbero mai più riacchiappati. Ad aspettarli la mamma sorridente davanti alla loro casa, che nei loro disegni era sormontata da un comignolo fumante e circondata da tanti fiori. Spakov sognava l’allegria della sua famiglia numerosa mentre Fregosi trovava finalmente il baule pieno di monete d’oro di cui parlava in continuazione. Diceva che davanti a quel tesoro sarebbe svenuto e mostrava come ai compagni meravigliati lasciandosi cadere teatralmente a terra. Spaghetti le grand, fratello maggiore di Spaghetti le petit, il bimbo, sognava di Carolina, il cucciolo di cinghiale trovato proprio sotto la torre di Seneca. Carolina era diventata la mascotte di tutto il Préventorium e dove andavano i ragazzini andava anche lei. Spaghetti le petit non dormiva e non sognava più. Non potendo più resistere decise di affrontare il freddo e il buio. Posò i piedi nudi sul pavimento e seguì prima l’allineamento delle spalliere fino al muro poi il muro stesso fino ad una porta che aprì. Dov’è la luce? Cercò l’interruttore senza trovarlo. Pazienza. L’orinatoio, se lo ricordava bene, era a destra entrando. E lì svuotò la sua piccola vescica di tutto il suo contenuto.
Il nuovo giorno portò la luce in un dormitorio che l’ammalato era il solo ad occupare. La possente voce del direttore gli pervenne chiara dall’esterno: “Avete un minuto per denunciarvi. Se entro un minuto non avrò il nome del fetente che stanotte ha fatto i suoi bisogni nel mio studio sarete tutti puniti!”
Il bullecco chiese: “Glielo dici?”
“Sono stato io?”
“Sì”.
Il bimbo si alzò, si trascinò fino alla porta del fondo, l’aprì, fece tre passi nella neve e gridò: “Sono stato io!” Fregosi, vedendolo, gridò a sua volta: “Non è vero! Sono stato io!” Il direttore si precipitò sul bimbo che alzava le mani per proteggersi il viso. Ma non sentì sulle guance il calore degli schiaffi, sentì solo quello del petto dell’uomo che ora lo stringeva nelle sue braccia. Prima di sparire nel dormitorio col bimbo e il suo bullecco l’uomo guardò i ragazzini allineati e disse: “Non è stato nessuno! No, non è stato nessuno!” Il bullecco giurò di averlo visto sorridere.

I vecchi, di Jacques Brel

I vecchi non parlano più
oppure solo, a volte, dal fondo degli occhi,
anche ricchi, sono poveri
non hanno più illusioni
hanno un solo cuore per due.
Da loro, c´è un odore di pulito, di antica lavanda:
anche a vivere a Parigi
si vive tutti in provincia
quando si vive troppo a lungo.
Ed è per aver troppo riso che la loro voce si incrina
quando parlano di ieri
è per aver troppo pianto
che le lacrime imperlano le loro palpebre.
E se tremano un po´
è di veder invecchiare
la pendola d´argento
che ronza nel salotto
che dice sì che dice no
che dice: Io vi aspetto.
I vecchi non sognano più
il loro libro è chiuso
il loro piano è muto.
Il gatto di casa è morto
il moscato della domenica
non li fa più cantare.
I vecchi non si muovono più
i loro gesti hanno troppe rughe
il loro mondo è troppo piccolo
dal letto alla finestra
poi dal letto alla poltrona
poi dal letto al letto.
E se escono ancora
l´uno a braccetto dell´altra
nei loro vestiti rigidi
è per seguire al sole
il funerale di uno più vecchio
il funerale di una più brutta.
Il tempo di un singhiozzo
e dimenticare per un´ora
la pendola d´argento
che ronza nel salone
che dice sì che dice no
che dice che li aspetta.
i vecchi non muoiono
si addormentano un giorno
e dormono troppo a lungo
si tengono la mano, hanno paura di perdersi
e tuttavia si perdono.
E l´altro resta là
il migliore o il peggiore
il dolce o il severo
- questo non importa,
quello dei due che resta
si ritrova all´inferno.
Lo vedrete forse, la vedrete qualche volta
nella pioggia e nel dolore
attraversarvi la strada, scusandosi magari
di non essere più lontano
e fuggire davanti a voi un´ultima volta
la pendola d´argento
che ronza nel salotto
che dice sì che dice no
che poi dice loro: Io ti aspetto.
Che ronza nel salotto
che dice sì che dice no
che poi dice che ci aspetta
.

martedì 2 dicembre 2008

La notte

“Quanti cavalli hai tu seduto alla porta
Tu che sfiori il cielo col tuo dito più corto
La notte non ha bisogno,
la notte fa benissimo a meno del tuo concerto
Ti offenderesti se qualcuno ti chiamasse un tentativo”

De André

La notte non appartiene più ai poeti e neanche agli innamorati. Appartiene a loro. Uccidono e uccidendo ridono. Poi urlano alla luna mostrando la testa che hanno appena tagliato e con cui a lungo giocheranno. La serranda metallica del mio garage è diventata una porta di calcio. Ogni volta che segnano risuona di morte. Ogni volta che segnano è un colpo alla porta dell’inferno. All’alba di solito vanno via come se temessero il sole e per poche ore mi posso abbandonare al sonno riparatore ma oggi non è così. Forse hanno notato la luce di camera mia. Mi chiamano per nome. Mentre vado ad assicurarmi di avere ben chiuso la porta a chiave sento dei rumori per le scale, poi sul pianerottolo. Bussano. Uno dice: “Il nostro pallone è sgonfio. Non è che ci potresti prestare il tuo?” E ridono, ridono. Ma la cosa ridicola è che anch’io rido, mentre sfondano la porta, mentre cado a terra rido perché è la cosa più buffa che abbia mai sentito in vita mia.

Le voci di un tempo

Ah! le belle voci di un tempo! Enrico Caruso, Mario del Monaco, Claudio Villa… Ve lo ricordate Claudio villa quando cantava Granada? Aveva una voce tanto potente da frantumare tutte le vetrate e il cristallo di una cattedrale… Non c’era vetro che potesse resistere ai suoi acuti! Quando questo energumeno era in forma, la terra tremava, gli intonaci si staccavano dai muri, le vetrate e i lampadari cadevano in mille pezzi in un fracasso che le memorie avrebbero ricordato per sempre. La gente inorridita cercava disperatamente di sfuggire al quell’inferno di note omicide. Nel fuggi fuggi generale, il pubblico impazzito calpestava senza pietà donne, bambini e anziani. Le ambulanze accorrevano a sirene spiegate, poi i medici coprivano i morti con un lenzuolo e portavano i feriti in ospedale nel tentativo disperato di salvare qualche vita. Intanto Claudio Villa cantava, cantava seminando morte e terrore intorno a lui. Era ogni volta così. Bisognava assolutamente fermarlo! Chiamate i pompieri, chiamate l’esercito, sparategli, lanciate una bomba se necessario! Una bella serata di canto non può trasformarsi in orrore, in massacro! Poi era ora di bilanci. Capitava che una città fosse rasa al suolo… Si contavano le vittime, morti e feriti più i danni materiali che si ammontavano a milioni e milioni di lire. Una volta, me lo ricordo come se fosse ieri, aveva cantato Granada in TV. Io avevo abbassato il suono al massimo perché sapevo che se non lo avessi fatto, quando sarebbe arrivato al punto critico – “Lenisci la pena di questo mio cuore zingaro! Addiooooooo… Granada romantica paese di luce di sangue e d’amor” - il televisore sarebbe esploso come una bomba. Questo successe, non al mio ma a quasi tutti i televisori d’Italia. Questo era Claudio Villa, il grande Claudio Villa.

sabato 29 novembre 2008

L'alba

"Ho abbracciato l'alba d'estate.
Nulla si muoveva ancora sul frontone dei palazzi. L'acqua era morta. Le zone d'ombra non abbandonavano la strada del bosco. Ho camminato, ridestando gli aliti vivi e tiepidi, e le gemme guardarono, e le ali si alzarono senza rumore". - A. Rimbaud

Quando ho abbracciato la mia alba d’estate, ti giuro, non avevo nessuna predisposizione poetica. Anzi, come si suol dire… Ecco, ero grasso come un vitello, con un faccione da grasso e una pressione alta da grasso. Insomma non ero niente che potesse richiamare le folle e a Rimbaud gli facevo un baffo. Poi che ho fatto? Mi sono svegliato presto una mattina d’estate, un caffè veloce, scarpe da tennis, pantaloncini corti e via con gli altri grassi a camminare e correre per viale Repubblica. Il viale è fiancheggiato da una pista ciclabile di circa tre chilometri che va a infrangersi in fondo contro l’argine del fiume Tirso, un tempo spesso in piena. Sul lato destro, delle ville di recente costruzione e su quello sinistro dei campi nei quali s’alternano spighe di grano e piante di riso o dove pascolano delle pecore sormontate ognuna da un uccello bianco che le aiuta a sbarazzarsi dei parassiti. Non troppo lontano, all’ombra di una siepe di rovi, sonnecchiano e sbadigliano dei cani da pastore. Il sole comincia a spuntare presto. Se non mi sbrigo finisce che torno a casa in un bagno di sudore. Ho già la fronte bagnata e sulla maglietta si allarga una macchia che un po’ mi ricorda la Spagna. Ma come accelerare quando ti accorgi che lì a due passi, tra le canne fitte, scorre un fresco canale? Mi avvicino un attimo e vedo quello che non avevo mai visto prima: tre gallinelle d’acqua sorprese dalla mia presenza prima corrono sull’acqua poi prendono il volo in uno sbattere d’ali e si vanno a nascondere nel canneto vicino. Ho sentito dire che se ti svegli abbastanza presto può capitare di incontrare dei conigli… Ma non devo perdere il ritmo. Se mi fermo ad ammirare la natura finisce lo scopo. Allora mi accontento di guardare camminando. Quell’anno il campo era una risaia. Il sole nascente si rifletteva sull’acqua e faceva luccicare ogni cosa. Persino i gusci delle lumache diventavano del tesori per i quali avrei ucciso. L’alba è potente: quando trasforma tutto in oro e il tuo stesso sudore in paesi sei il padrone del mondo.

sabato 22 novembre 2008

75%

Credo che dovremmo essere tutti grati al nostro governo. All’estero queste cose non succedono e penso che non succederanno mai. Da noi gli ultraottantenni da domani avranno la possibilità di farsi fare gratuitamente un’iniezione letale presso l’ambulatorio sanitario della loro città o di scegliere il libero suicidio. Sinceramente, io ci penserei due volte prima di rifiutare l’iniezione. E’ una vita intera che inseguo le offerte speciali, i tre per due, i due per tre e le varie promozioni. Mi ci sono abituato ed è diventato uno stile di vita al quale non posso e non voglio rinunciare. Quando da qualche parte leggo “GRATUITO” o “SCONTI” oppure “AFFARI” scatto subito. Difficilmente quelle casalinghe militanti in fuseaux e pantacollant mi fregano sul tempo. Nei negozi, sono io, sempre io, quello che dal primo secondo delle promozioni e degli sconti, la testa nella pozza come un maiale nel trogolo, mi arraffo gli articoli migliori lasciando quelle misere debuttanti con un palmo di naso. In paese mi chiamano 75%, il che è tutto dire.
E li lascio cantare i fervidi amanti del suicidio. L’altro giorno in pullman uno diceva che da tempo sogna di sfracellarsi buttandosi da una bianca scogliera. Poetico, lo ammetto, ma non fa per me. Un altro, che lo aveva sentito, un nostalgico sicuramente, ha detto che per conto suo preferisce l’ascia come chissà quale glorioso re del passato. Un altro ancora, un insegnante, ad altro non pensa, queste sono le sue parole, che alla cintura esplosiva durante una visitina al parlamento con la classe. Poi si sono messi a parlare tutti insieme, anche l’autista. C’è chi preferisce rimanere nel classico: la fune al collo, la 44 Magnum alla tempia, la pastiglia di cianuro alla Emma Bovary, il fuoco come i bonzi ma ci sono pure le sette che preconizzano il suicidio di massa. Sapessi la pubblicità che mettono nella mia buca delle lettere! E lo spam nella mail! In un giorno ho ricevuto ben 70 000 messaggi e tutti sul suicidio. C’è da dire che i privati fanno dei prezzi interessanti, ma quando è gratuito è gratuito… Non si può battere il gratuito!
E’ vero che ci sono anche i comunisti che progettano di scappare all’estero in barcone… Ma non ce l’hanno un po’ di dignità? Io l’ho sempre detto che quella è gentaglia…
Comunque sia da stasera io mi apposto davanti all’ambulatorio. Non si dica che 75% è arrivato secondo!

giovedì 20 novembre 2008

Babbo Natale

- Ma a te chi te l’ha detto che probabilmente Babbo Natale quest’anno non passa?
- Lo dicono tutti. Non sono mica il solo a saperlo.
- E come mai dicono così?
- Pare che si sia sentito male…
- Ma dai! Babbo Natale si è sentito male! Hai sentito Gualtierino di mamma? Babbo Natale non sta bene! Ma, male male?
- Sì, male male…
- Alla schiena come la Befana?
- Sì, come la Befana…
- Certo che in giro c’è gente strana, eh! A proposito, sai che mi è ancora sparito il coltello che ci ha regalato il padrino di Gualtiero?
- E lo chiedi a me?
- Non te lo chiedo ma se per caso sai dov’è.
- Come faccio a saperlo? Mica ho poteri magici!
- Babbo Natale, Babbo Natale… Nessuno lo sostituisce allora? Come si fa per il coniglietto di Gualtiero?
- Normalmente doveva prendere il suo posto Ernesto Melanzana quello che ha un parente mafioso in America ma pare che si sia sentito male anche lui…
- Anche Ernesto Melanzana! E' il primo in graduatoria se non sbaglio!
- Era...
- Un problemino alla schiena, scommetto… E quindi?
- Non vorrei sembrarti troppo ottimista ma, forse… se la fortuna mi assiste… Ma, Gualtierino di papà, proprio un coniglio vuoi? Un violino come tutti, no?

giovedì 13 novembre 2008

Bagni


Nel terzo millennio inoltrato, in una scuola statale del nostro paese, dal gabinetto alla turca del bagno degli insegnanti fuoriesce un filo d’odore che si insinua nel corridoio, si raccoglie e si rafforza in un angolo oscuro poi, come un fiume in piena sfonda la porta della quinta C gettandosi nell'oceano della puzza dei piedi e dei panini alla mortadella. Alcuni mosconi blu sbattono ripetutamente alla finestra ma alla fine s'arrendono stremati sul davanzale. Oltre la finestra, una primavera ignara.
Bloccato nel bagno da due ore un docente accovacciato. Non sapeva che nei bagni della scuola non c’è mai la carta igienica e che ci si schizza sempre...
– Sempre?
- Sì, sempre... le scarpe. Ora lo sa.
Uscirà solo a notte fonda.

lunedì 10 novembre 2008

Il bue rosso

Il bue rosso sta per i fatti suoi, tra i suoi simili, in un prato talmente verde da non sembrare reale. Il bue è maestoso. Il suo mestiere è di essere maestoso come il Gennargentu, di guardarvi come dal fondo del suo impero mentre voi, una macchina fotografica digitale da due soldi in mano, riuscite a malapena a reggervi su un muro a secco alto quanto i suoi garretti. Dovreste venire qui dove mi trovo ora nell'altipiano di Abbasanta a vederlo! Vi assicuro che è impressionante. Prima di tutto il quadro: ai miei piedi, le pietre di lava nera che mi concedono soltanto un equilibrio precario. In fondo, le vecchie querce preposte al fresco. A destra, un abbeveratoio enorme nel quale specchiarsi e lasciare lunghe scie di bava. Nel pascolo, il bue, che mi fissa. E smettila! Buona notte! Tutta la famiglia si volta a guardarmi! Che succede ora? Ecco, lo sapevo che qualcosa sarebbe accaduto. Vi risparmio i dettagli, ma la famiglia bue rosso all’unisono fa i suoi bisognini… Che dico bisognini: quelli sono dei bisognoni! Mamma mia quanta! Se quello grosso lì non fa un passo avanti finisce seppellito… E guardatemi quell’altro! Lo sapevate voi che anche i buoi la fanno a spruzzi? Ma che è? Ora state esagerando… Non azzardartevi ad avvicinarvi, e tu non ti voltare! Nooo! E che cavolo! Me la compri tu una maglietta nuova adesso? Ma, dico io, proprio quando vi stavo per immortalare nel vostro ambiente naturale, voi così imponenti, così solenni! Siamo seri per una volta ragazzi, almeno per una foto… Che faccio vedere ai miei colleghi in ufficio domani? Ho bisogno di quella foto… Lo so che non dovrei preoccuparmi dei colleghi: loro neanche mi cagano… Sapete che vi dico? Avete ragione voi e quasi quasi accetto la sfida. Volete la guerra? L’avrete!

venerdì 17 ottobre 2008

Goodbye, M. Johnson!

“Goodbye, M. Johnson!”
“Goodbye!”
“Goodbye, Mrs. Johnson!”
“Goodbye!”
Oh Dio! Quanto ama Londra Mario Puliga! Il Tamigi, Tower Bridge, i londinesi… Voi non avete idea di quanto sono precisi i londinesi! Tutto deve stare al suo posto. The chair is near the window. The cat is on the bed. Mario is in the train! Sì, Mario è sul treno che lo porterà via dalla città che gli ha aperto le braccia per un mese. M. Johnson is on the right and Mrs. Johnson is on the left. Goodbye London…

Ma Mario Puliga non si poteva comportare normalmente? no! Come nei film scende dal treno senza che quelli che lo salutano dal marciapiede se ne accorgano, si apposta dietro e sta per fare cucù sorpresa che ridere! Ma… che dicono? Che lingua strana!
Lui: “A me ‘sta storia di parlare inglese mi ha proprio rotto il cazzo!”
Lei: “E a me allora! Mo che u strunz' se n’è iuto chi sarà il prossimo?”
Lui: “E’ uno che ha il vizio di guardare la TV. Anche lì ci sarà da fare parecchio. Non invidio quelli che lavorano alla televisione: devono essere sempre pronti perché quella è gente che potrebbe accendere la TV in qualunque momento della giornata e son cavoli!”
M. Johnson si volta leggermente per accendere una MS. Scorge Mario Puliga ma finge di non averlo visto. Allarme rosso, allarme rosso! Alla moglie: “Is the sky blue today?” La moglie non risponde. Allora fa il ventriloquo: “Yes the sky is blue.” “What’s your name?” “My name is Johnson.” “Is the chair near the window?” “Yes it is!” “Is the cat on the bed? “Yes the cat is on the bed!” Nel frattempo sgomitate ai fianchi.
Lei: “Rilassati Tanuccio, u strunz' se n’è iuto!”
Lui: “Attention please! Attention please! (a parte) E stat'accuort: sta arred'a noi!”
Lei: “What’s your name?”
Lui: “M. Johnson!”
Lei: “Is the sky blue?”
Lui: “Yes, the sky is blue!”

martedì 30 settembre 2008

La ballata di Oreste Marroccu

Capitolo I

A Bingias de Maria, Oreste Marroccu era l’unico in grado di sollevare il banco di un bar con la sola forza delle braccia. Lo aveva fatto ben tre volte nella sua vita: la prima volta a Orune, poi a Pedras de Fogu e a Tertenia. Ma i bar non gli conveniva tanto maltrattarli perché, come i suoi coetanei, vi passava i pomeriggi e spesso le notti, vicino alle casse di bottiglie di birra che in ottima compagnia svuotava. Non facevano niente di particolare nei tzilleri: la solita morra, le solite bevute, le solite risse seguite dalle solite riconciliazioni e la solita pisciata sotto le stelle. Dopo cena, sempre che si ricordassero di cenare, si disponevano in cerchio e, bicchiere in mano, cantavano il loro repertorio che invariabilmente cominciava con “Sa crapola” e sprofondava nei canti a tenores.
Oreste era nato a Bingias de Maria ma dalla faccia sembrava uno di Baunei dove era conosciutissimo. Aveva costantemente una barba di tre giorni, non di quelle finte che si vedono in città ma una vera, ispida, nera con la quale, volendo, avrebbe potuto grattugiare un’intera forma di pecorino sardo stagionato. Eppure il cinghiale toccò il cuore di Carmelina Frongia, così magra e bassa di statura che faceva piuttosto pensare a una zanzara. Carmelina, una donnina di 25 anni amava starsene seduta sul suo scannu a fare dell’uncinetto o a guardare la televisione. Paradosso della vita, lui grande, grosso e brutto si faceva comandare dalla zanzara ma solo in privato perché se avesse osato farlo in pubblico Oreste l’avrebbe attaccata al muro con una bussinata, l’avrebbe. Ma Carmelina Frongia era una donna che non aveva paura di nulla, tranne che dei pistilloni. Quando quella lucertola bianca schifosa le entrava in casa lanciava delle urla che la sentivano dal sattu di Pedringianu Cossu.


Capitolo II

Erano le quattro del mattino, ora vecchia. Oreste Marroccu, ”imbriagu ke sa suppa”, aveva appena salutato gli amici. Uscendo dal bar svoltò subito due volte a destra e si trovò nella viuzza delimitata a destra dal muro a secco dell’orto di Bobore Castangia. Era un muro abbastanza basso anche se costruito in paese. Chi passava da quelle parti poteva tranquillamente vedere cosa aveva piantato Castangia e cosa aveva dato da mangiare al suo mulo. Non si trattava di quei muli figli dell’asinello sardo e della cavalla ma di un asino grosso continentale. Era un mulo martinese, lo stesso che un tempo serviva nell’esercito italiano. Castangia a quanto pare vi era molto affezionato tanto da dargli un nome da cristiano. Costantino era solito guardare la gente che passava nella via e sporgere la testa per farsi accarezzare. Marroccu, che contro quel muro per consolidata abitudine stava svuotando la vescica, lasciò avvicinare Costantino che aveva la sua consueta espressione tranquilla per quanto si potesse giudicare alle quattro del mattino sotto uno spicchio di luna estiva. Lo accarezzò come faceva d’altronde tutte le notti uscendo dal tzilleri. Costantino gradiva le carezze dell’uomo ma quella notte, chissà che cosa gli era passato per la testa, morse Marroccu tra collo e spalla. Se non gli avesse dato uno dei suoi più poderosi cazzotti stendendolo all’istante l’animale gli avrebbe sicuramente strappato via un pezzo di carne. Furono le imprecazioni di Marroccu a svegliare Bobore Castangia che dormiva, pacifico, sognando di guidare i muli dell’esercito italiano su per le Alpi contro il nemico austriaco come ai bei tempi della Brigata Sassari.


Capitolo III

Bobore Castangia dalla finestra gridò: “’stizia ti sequestri!” e in un attimo si trovò vicino al mulo. “Costantino! Costantino!” Poi squadrando Marroccu: “Cos’hai fatto al mio Costantino? L’hai ucciso! L’hai ucciso!”
“Non è morto!” rispose Oreste Marroccu dolorante.
“La giustizia ti sequestri!”
E allora Oreste Marroccu non si poté più dominare. Afferrò Bobore Castangia per le ascelle sollevandolo da terra, se l’aggiustò e lo morse nell’esatto punto in cui egli stesso era stato morso dal mulo.
Le forze dell’ordine non tardarono ad arrivare sul luogo con ben tre volanti. Volarono colpi, insulti, minacce, ma alla fine Oreste Marroccu fu sopraffatto, ammanettato, catturato, trascinato in caserma. Davanti alla caserma viveva un certo Minigheddu che non dormiva mai. Anche alle quattro del mattino non disperava di vedere qualcosa d’interessante sotto la minigonna di una di quelle giovanotte che studiano a Cagliari e tornano in paese a trascorrere le vacanze. Prendeva il suo scannu e andava a sedersi davanti all’uscio come usano fare i vecchi dei nostri paesi. Bingias era un paese calmo nel quale non succedeva mai niente ma quella mattina, vedendo Marroccu in manette e scortato dai carabinieri, Minigheddu non poteva neanche più dire questo. Gli chiese: “E tu che ci fai qui?” Marroccu rispose: “E che ne so, io! Qui si sono messi ad arrestare…” In effetti, di che cosa si poteva accusare Marroccu? Di maltrattamento di animali? E’ vero, aveva maltrattato il mulo ma a detta di uno dei carabinieri si è ripreso quasi subito e ora per lui quel cazzotto è un semplice ricordo. E poi Marroccu si era solo difeso. Rimaneva la possibile accusa di avere morso Bobore Castangia. Qui rischiava qualche giorno di carcere, non di più. Questo sperava. Ma il fato ne decise altrimenti.


Capitolo IV

Carmelina Frongia dormiva beata tra le lenzuola di lino ricevute in regalo dalla suocera, Speranza Cuccu. Quelle lenzuola erano un po’ ruvide, come tutte le lenzuola di lino, il che spiega perché passano così facilmente da suocera a nuora. A dire il vero, un po’ tutto il vicinato e il parentado le aveva regalato un paio di lenzuola di lino. Ora che ne aveva l’armadio pieno progettava di rifilarle a sua volta a qualche sposina innocente. Ogni volta che Carmelina si muoveva nel letto ne sentiva la durezza, che si traduceva in uno sgradevole rumore di tovaglia plastificata che avrebbe svegliato il marito se si fosse trovato al suo fianco. Aprì gli occhi. Nel buio allungò il braccio e constatando che ancora non era rientrato dalla sua imbriaghera notturna pensò che questa era la volta buona che se lo ritrovava tutto cagato e pisciato. Non gli era ancora successo finora ma era molto probabile che la cosa accadesse entro breve. Ultimamente, appena rientrato correva in bagno e vomitava tutto quello che aveva in corpo poi si sedeva sul water e vi spruzzava violentemente il resto. Quando aveva finito, il bagno sembrava quello della stazione di Mandas. Ogni mattina Carmelina doveva bisticciare col marito per come lo aveva conciato. “Ma hai bisogno di sporcare dappertutto? Guarda qui cos’hai combinato! Non si può neanche camminare qua dentro!” Accese la luce, diede una rapida occhiata ai muri eventualmente ci fosse un pistillone, guardò l’orologio a muro: le cinque passate. “Che si sia cagato per strada e non ha il coraggio di venire a casa?” Carmelina s’infilò la lunga gonna, la camicia, le scarpe, prese del cambio per il marito e uscì.


Capitolo V

La luna fumava il suo sigaro mentre le cicale, disposte in cerchio, cantavano l’inizio dell’estate. Carmelina sulle sue scarpe con la suola di gomma passò davanti alla casa di Antioco Puddu che russava forte. Un po’ ne invidiava la moglie che non era costretta ad alzarsi alle cinque del mattino in cerca di un marito cagato. All’improvviso fu assordata a due passi dal canto di un gallo che irrispettoso del sonno dell’onesta gente e indifferente ai passanti le urlò nelle orecchie che era ora di alzarsi. Carmelina allungò il braccio e lo afferrò per il collo facendolo zittire con una eloquente pressione. Il gallo moggi moggi si ritirò nel pollaio dove tentò un ridicolo canto stonato poi s’ammutolì. Eccola arrivata al bar frequentato dal marito. Era chiuso. Qua e là sul marciapiede qualche chiazza di vomito testimoniava che anche quella notte Oreste aveva festeggiato con gli amici. Decise allora di cercarlo nelle viuzze intorno al bar a cominciare da quella immediatamente a destra. Albeggiava. Camminando in punta di piedi poteva vedere il mulo dietro il muro a secco e il rigagnolo di piscio lasciato dal marito. Cento metri oltre, dopo l’abitazione di Castangia, si trovò in aperta campagna. Chiamò: “Oreste!” Nessuna risposta. Tornando indietro notò dalla luce accesa che Castangia era sveglio. L’ex alpino parlava a voce alta, probabilmente da solo, dato che non era sposato e viveva come un eremita. “La giustizia lo fucili. Io a quello lo faccio arrestare, lo faccio!” Carmelina cominciò a preoccuparsi. Che quelle parole si riferissero al marito? Ogni secondo che passava questa ipotesi diventava certezza. Così le sue suole di gomma la condussero davanti alla caserma dei carabinieri e sotto lo sguardo di Minigheddu rattristato dal desolante spettacolo della sua lunga gonna.


Capitolo VI

La strada che conduce a Bingias de Maria è una provinciale piena di buchi. E’ a valle un lungo rettilineo che attraversa campi monotoni per diventare all’ingresso del paese un bel viale alberato se vogliamo considerare i fichi d’india degli alberi. A sinistra, un calvario delimita l’abitato. A destra un cartello che qualche buontempone armato di fucile ha trasformato in colabrodo ma che nonostante questo rimane ancora leggibile. C’è scritto: BENVENUTI A BINGIAS DE MARIA. L’avvocato Murtas conosce bene questo cartello, visto che egli stesso è di Morrogas che dista a un lancio di Pattada da Bingias. Lo stesso cartello di Morrogas si trova nelle medesime condizioni e forse tutti i cartelli di benvenuto della Sardegna centrale sono così. L’importante è che si possano leggere.
Arrivato nella piazza del paese l’avvocato parcheggiò la sua Punto di fronte al comando dei carabinieri. Scendendo di macchina si lisciò i baffetti grigi, salutò diverse persone, tra cui Minigheddu, i compagni di imbriaghera e la moglie di Oreste Marroccu. “Di che cosa è stato accusato Oreste?” chiese quest’ultima. “Ancora non lo so”, rispose l’avvocato. “Devo ancora leggere i capi d’accusa. Le farò sapere dopo l’incontro con suo marito. Stia tranquilla signora, suo marito è una brava persona. Sono sicuro che si tratta di un’accusa inconsistente.” La signora Marroccu si voltò verso i compagni di Oreste con un espressione che voleva significare “Che vi avevo detto io? Siamo in ottime mani!” “Avvocato”, disse Beppe Murgia, amico di famiglia di Oreste, “prima di andare a parlare con Oreste se la fa una birretta con noi?” L’avvocato sembrò pensarci un attimo poi disse: “Perché no? Una sola però!”


Capitolo VII

Alle quattro del mattino del giorno dopo l’avvocato Murgia si ritrovò davanti il muro a secco di Bobore castangia a pisciare l’anima e accarezzare il muso del mulo Costantino.

“Che si fa ora?” chiese Beppe Murgia ai compagni dietro un pancione di cui ti accorgevi solo se lo vedevi di profilo.
“Ci cantiamo una crapola”, rispose Nanni Fois schiarendosi rumorosamente la gola. “Che altro vorresti fare?”
“Non intendevo questo”, disse Murgia. “Che facciamo ora che Costantino ha morso anche l’avvocato Muscas? Cerchiamo un altro avvocato o ci fidiamo dell’avvocato d’ufficio?”
“Ma è così mal ridotto l’avvocato Muscas?”
“Purtroppo è stato morso gravemente e non credo che si riprenderà così presto.”
“ Chi è l’avvocato d’ufficio?”
“Cancedda.”
“ Cancedda? Ma se non sa neanche dove è piantato!”
“Mi hanno parlato di uno che fa politica. E’ un sardista che sa il fatto suo. Vi ricordate il processo Marongiu, quello che ha dichiarato l’indipendenza della Tavolara? Lo ha difeso lui.”
“Sì, ma Oreste è accusato di tentato omicidio mica di secessione.”
“E allora? Se uno è bravo è bravo anche se fa politica!” Poi, rivolgendosi al barista: “Stappaci altre tre birre, Bachisio!”


Capitolo VIII

“Non mi dica che è a dieta, avvocato!”
“Per carica!”, protestò l’avvocato Piredda che si lasciò servire un terzo piatto abbondante di Kulurgionis. “E poi”, continuò, “sua moglie cucina così bene che sarebbe un delitto!”
A casa di Beppe Murgia era festa grande. Un grande avvocato, che dico grande, il più grande degli avvocati sardi era ospite a casa sua! Quando si dice che a Bingias si è ospitali vuol dire che si è ospitali e Murgia lo voleva pienamente dimostrare. Mica aveva l’intenzione di fare la brutta figura di certa gente che dopo tre giorni gli ospiti se n’erano andati per disperazione… Aveva destinato all’avvocato una camera spaziosa con un armadio enorme e aveva messo il bagno grande a sua intera disposizione mentre lui e sua moglie avrebbero usato quello di servizio.
“Ancora due kulurgionis, avvocato? Non vorrà mica offenderci?”
L’avvocato fece questo sacrificio. Beppe Murgia era uno che quando si tratta di roba da mangiare non voleva correre troppi rischi. Aveva diciamo fatto i conti un po’ all’ingrosso. Si era detto: “Io da solo me ne mangio un chilo. Siamo in tre: tre chili. Per essere sicuri facciamo cinque chili di kulurgionis." Il pranzo, abbondantemente irrorato di cannonau, fu per l’avvocato l’occasione di parlare di politica e, perché no, di sognare un po’. Al quarto bicchiere, già immaginava le truppe sarde che sfilavano per le vie della Capitale sarda al ritmo del passu torrau: sinistro – destro – destro – sinistro – inchino e ancora sinistro – destro – destro – sinistro – inchino. Nelle orecchie un fracasso di sonettus, triunfas, launeddas e cantos a tenores; davanti agli occhi un’enorme bandiera con i quattro mori.


Capitolo IX

“Questa Repubblica ha bisogno di una Costituzione!” affermò improvvisamente l'avvocato, lo sguardo piantato nel futuro.
“Ma non c’è già la Carta Delogu?” ribatté Beppe Murgia che di politica non ne azzeccava mai una. “La Carta Delogu appartiene al passato. Noi Sardi abbiamo bisogno di una costituzione moderna, adatta ai nostri tempi.” Spiegò l’avvocato.
“Caterina!” urlò Murgia alla moglie che era andata un attimo in cucina. “Porta il maialetto! E stappa due bottiglie del vino di Gavino Caboni, quelle senza l’eticchetta!” Lanciando un’occhiata all’avvocato Piredda aggiunse: “E’ un vino speciale, mi creda…” senza accorgersi che l’avvocato era diventato verde.
“Non ce la faccio più…” ebbe la forza di mormorare quest'ultimo.
“Avvocato, lei mangia come un uccellino!”, disse Murgia servendogli un’abbondante porzione di carne.
L’avvocato, tutto sudato, tremante, ammutolito, ci mise quasi un’ora prima di arrivarne a capo e quando credete di avere messo termine alla sua tortura, Murgia lo servì di nuovo con una porzione esagerata. Mentre l’avvocato cadeva a terra Murgia stava raccontando la storia di una ragazza anoressica morta di fame sotto gli occhi della madre in lacrime.
Alle quattro del pomeriggio la sirena di un’ambulanza turbò la quiete pomeridiana della tranquilla Bingias de Maria portandosi via il più grande degli avvocati che la Sardegna avesse mai avuto.
Fu destino che toccasse a Cancedda difendere Marroccu.

Capitolo X

Rassegnarsi a prendere Cancedda, che non aveva mai vinto un processo, era come perdere in anticipo. La diffusa opinione che quest’uomo magro e imberbe, sempre vestito bene e con la borsa di pelle appresso, fosse un antipatico non era nata così dal nulla. Già alle elementari era uno con la puzza sotto il naso. Mai avrebbe parlato una lingua così “barbara” come il sardo e mai avrebbe giocato alla morra, a "zacca e poni" o a “prontus is cuaddus prontus”. Ricordava Oreste Marroccu, durante la ricreazione, che fungeva da cuscino addossato al muro che delimitava il cortile della scuola, alcuni dei suoi compagni curvi davanti a lui a fare i cavalli e gli altri che saltavano sulle loro solide schiene! Il gioco terminava quando uno solo dei saltatori avesse toccato terra con qualsiasi parte del corpo. Ma poi le squadre s’invertivano e si ricominciava. Una volta, a corto di partecipanti, lo invitarono, lo supplicarono di saltare. Fu in quell’occasione che usò il termine di “ineducati”. “Maleducati”, avrebbero capito ma “ineducati” scatenò l’ilarità generale e l’unanime disprezzo. A complicare il tutto fu il suo comportamento scolastico, spesso fatto di delazioni con nomi scritti alla lavagna quando gli insegnanti l’incaricavano di sorvegliare la classe, ma anche e soprattutto il suo ottimo rendimento specialmente in Italiano. Divenne col tempo un buon oratore ma con un accento strano, preso chissà dove, qualcosa a metà strada tra il toscano e qualcos’altro di poco definito: mai un errore di doppie, mai una confusione tra vocali chiuse e aperte. Si ascoltava parlare Cancedda, si deliziava nella pronuncia corretta dei vocaboli scegliendo quelli più rari e difficili. Parlava gli occhi chiusi Cancedda. Ascoltare Cancedda era come assistere a un concerto dodecafonico di Schoenberg.


Capitolo XI

Cancedda faceva Camillo di nome ma preferiva farsi chiamare col solo cognome anche perché in Sardegna, inesorabilmente, con l’età si acquisisce lo statuto di tziu e “tziu Camillu” o peggio ancora “tziu Mimillu Cancedda” suonava alle sue orecchie come una combinazione orrenda come sono orrendi "tziu Nannandu", “tziu Peppi” o “tzia Francisca” imposti dal furore dissacrante della gente a cui non è possibile opporsi. Quando invece i nomi rimangono tali e quali significa o che sono già brutti in partenza come “tzia Antioga” o “tzia Defenza” oppure, al contrario, magnifici come “tzia Regina”. In qualche caso questi genitori controllano se il nome non sia associato a qualche espressione volgare. Camillo è inoltre un nome che spesso a Bingias de Maria danno scherzosamente agli animali, agli asini in particolare, così, per tradizione. Evidentemente, i genitori di Cancedda erano troppo occupati a viaggiare per istruirsi sugli usi del proprio paesino.
Quando annunciarono a Marroccu l’arrivo di Camillo Cancedda, il suo avvocato difensore d’ufficio, l’uomo forzuto chiese al guardiano: “Camillo chi?” e scoppiò in una risata fragorosa.

"Il maresciallo Esposito, nel suo dettagliatissimo ed esauriente verbale, così descrive l'increscioso, il deplorevole accaduto: La notte del 3 giugno 1985, alle cinque del mattino…"
"Erano le quattro", corresse Marroccu.
"Si tratta dell'ora legale", ribatté l'avvocato che poi continuò: " La notte del 3 giugno 1985, giunti presso l’abitazione del signor Castangia Salvatore..."
"Mi fai un favore Cancedda? Durante il processo non aprire bocca..."


Capitolo XII

Quella domenica pomeriggio Bingias era deserta. Lo è di solito la domenica ma quella domenica lo era ancora di più. La casa di Bobore castangia era chiusa. Nel suo orto non c’era traccia di Costantino. Il signor Minigheddu, rintanato dentro casa, aveva rinunciato a spiare le ragazze che quella domenica proprio non passavano. Nel comando dei carabinieri più nessuno entrava o usciva da un bel pezzo. Persino il bar di Bachisio Carta era chiuso. La signora Carmelina Frongia, prima di uscire di casa, chiuse le finestre, controllò la bombola del gas, i rubinetti, le luci di tutte le stanze e lasciò nel cortiletto davanti casa una ciotola piena d’acqua e un’enorme porzione di malloreddus al sugo nel piatto del gatto Marceddì che avrebbe preferito i soliti muggini di Cabras. Chiudendo a chiave il cancello di ferro interrogò il cielo ma non seppe interpretarlo. Domani pioverà? L’uomo della sua vita avrebbe saputo, lui.
Dentro la Uno bianca Beppe Murgia e la moglie Caterina stavano bisticciando a proposito di una cassetta che quest’ultima si rifiutava di sentire. Si trattava di una cassetta del coro di Bitti che il marito metteva mattina e sera indifferente alle sue proteste. L’arrivo della signora Frongia li mise d’accordo. Aveva un’espressione seria che male si sarebbe conciliata con la musica. Murgia fermò il nastro, scese dall’auto e aiutò la moglie di Marroccu ad accomodarsi nel sedile posteriore. Alle cinque del pomeriggio di quella domenica, sempre ora vecchia, la macchina di Beppe Murgia partì alla volta di Lanusei.


Capitolo XIII

All’esterno del tribunale di Lanusei, sulle scalinate e il piazzale antistante, i cori procedevano indisturbati, le morre degeneravano in risse mentre nella hall era un armonia di canti con in sottofondo il vociare continuo di una moltitudine di avvocati, giudici, forze dell'ordine, testimoni, imputati e la massa di parenti, amici e semplici curiosi.
“Questo è un palazzo di giustizia, non un ovile!” urlò un usciere grasso che sembrava sull’orlo dell’infarto. I componenti del coro, che avevano appena attaccato "Addio Nugoro amada", sembravano non prestargli ascolto. Accorsero quattro agenti e i canti cessarono ma solo per ricominciare alcuni minuti dopo poco più lontano.
“Ma è possibile che non capiate la differenza tra un tribunale e un bar? Quelle bottiglie di birra, per favore! Ma fatemi il favore!”, si spolmonava l’usciere. Nuovo intervento delle forze dell’ordine e nuovo focolaio di canti sardi in un altro punto del tribunale. L’usciere rischiò seriamente di morire quando vide un bingese che pretendeva di entrare in aula con il suo cane, un pastore fonnese o qualcosa del genere.
“Ma stiamo scherzando? Lo sa lei che qui non entrano i cani?”
“Perché no? Entrano i muli e il mio cane non può entrare?” protestò l'uomo che dall'alito aveva sicuramente fatto una scorpacciata di ravanelli la vigilia.
“Quello è un teste importante! E ora vada via col suo cane!”
Il bingese mormorò qualcosa in fonnese al cane, come per tradurgli nella sua lingua quanto detto dall'usciere e convincerlo della necessità di aspettarlo fuori. Accompagnò il cane all'uscita e si ripresentò solo davanti all’ingresso dell’aula B.
“Ora posso entrare?”
Questa volta il grasso usciere non fece opposizione.


Capitolo XIV

Se c’è un luogo che ha dato origine al detto “centu concas centu barritas” questo è sicuramente l’aula B del tribunale di Lanusei. Quel lunedì erano almeno cento le barritas che, nonostante il caldo da morire, decoravano il capo dei Bingesi venuti appositamente per assistere al processo del loro compaesano Oreste Marroccu. La maggior parte portava la camicia bianca, i gambali e dei pantaloni di velluto. Per quanto riguarda le donne, in numero almeno uguale a quello degli uomini, indossavano copricapo, corpetto, gonna e grembiule gialli e viola melanzana e agitavano dei ventagli tutti uguali come se fossero stati comprati nello stesso negozio. In effetti era così.
Carmelina Frongia occupava il posto proprio dietro al marito. Il suo sorriso tradiva assieme fiducia ma anche incertezza perché con Cancedda non si sa mai. Vicino a lei, Beppe Murgia, la moglie, il barista Bachisio, i parenti e gli amici dell’imputato. Vicino a Oreste, l’avvocato Cancedda che prendeva degli appunti. Sul lato sinistro, i suoi accusatori: il PM Usai, Salvatore Castangia e Costantino, il mulo.
La corte entrò. Erano tre giudici talmente bassi che quando presero posto dietro le loro scrivania quasi non si vedevano.
“Silenzio!” urlò il giudice centrale battendo sulla scrivania col martello di legno.
“I barras t’arruinti!” rispose qualcuno dal fondo. Risata generale.
“Silenzio!” urlò di nuovo il giudice. Questa volta non ci furono repliche esilaranti.
“Procediamo! Di che cosa è accusato il qui presente Oreste Marroccu?”
Il P.M. Usai era un cabrarisso con una forte abbronzatura, più dovuta alla sua discendenza saracena che all’opera dell’astro solare.
“Tentativo di omicidio, signor Salvatore Castangia, vostro onore. Posso dare lettura del verbale dei carabinieri di Bingias de Maria?”
"Dia!"


Capitolo XV

"La notte del 3 giugno 1985, alle cinque del mattino, giunti presso l’abitazione del signor Castangia Salvatore, detto Bobore in località su furungoni di Bingias de Maria troviamo sul luogo il suddetto signor Castangia e il signor Oreste Marroccu ambedue doloranti alla spalla destra per ferita da morso di cui uno di mulo. Alla nostra venuta quest’ultimo cominciava ad andare in escandescenza, assumendo atteggiamento di sfida e insultando pesantemente in lingua sarda il Maresciallo Esposito.
Il maresciallo senza aderire alla provocazione chiedeva i documenti che l’uomo rifiutava di fornire.
Non potendo più la pattuglia soggiacere alla volgarità di quest’ultimo che solo successivamente verrà identificato, ed essendosi lo stesso rifiutato di fornire le generalità lo si invitava a salire nell’autovettura di servizio, per poi condurlo presso il Comando per l’identificazione.
L’uomo che rifiutava di essere portato al veicolo e fatto salire a bordo cominciava a colpire i militari con calci, pugni e spintoni. Quest’ultimi dapprima sopraffatti, essendo stati colti di sorpresa, riescono solo in un secondo tempo a fermare e a ammanettare l’aggressore. Il maresciallo Esposito, durante la colluttazione che era scaturita con quest’ultimo, subiva una testata al setto nasale con conseguente rottura dello stesso.
Stante la condotta tenuta di quest’ultimo si procedeva a dichiarare lo stesso in arresto ritenendolo responsabile del reato di resistenza."


Capitolo XVI

“Scusi ma che ci fa questo mulo qui?”
“Non saprei, vostro onore. Lo chieda alla difesa. Noi non abbiamo richiesto la presenza dell’animale”, rispose il PM Usai lanciando uno sguardo interrogativo al Castangia.
“Beh, a dire il vero neanche noi, vostro onore”, fece eco l’avvocato Cancedda guardando Oreste Marroccu come per chiedergli l’autorizzazione di parlare.
Il PM Usai rivolgendosi a voce bassa al suo assistito: “Signor Castangia, si può sapere perché ha portato il mulo?”
“Costantino è testimone!”
”Come potrebbe testimoniare un mulo? Ma non rendiamoci ridicoli!” Al giudice: “Vostro onore, si tratta di un errore del mio assistito. Ci scusiamo. Provvediamo subito a fare uscire il mulo.”
“E dove lo metto vostro onore? Non conosco nessuno a Lanusei!”, s’esclamò Castangia.
Il giudice scambiò alcune espressioni perplesse con i suoi colleghi, poi rivolgendosi all’assistenza:
“Qualcuno di voi si potrebbe occupare del mulo del signor Castangia?”
Ci fu un vociare diffuso, simile a quello delle aule scolastiche, ma nessuno si propose.
“Cominciamo bene!”, commentò il giudice. “Si faccia entrare l’usciere!”
L’usciere, che si stava immolando per impedire l’ingresso in aula a un pastore di Orune che pretendeva di assistere al processo con il suo gregge di pecore, si ricompose un’espressione consone al luogo e entrò seguito da alcuni ovini prontamente richiamati dal pastore stesso. Quando quest’ultimo vide riapparire l’usciere con il mulo s’esclamò: “E a me mi fa tutte queste storie per due pecore!”
“Procediamo”, disse il giudice visibilmente sollevato.
Proveniente dalla hall, un urlo disumano squarciò il relativo silenzio ritrovato dell’aula del tribunale.


Capitolo XVII

“Cos’è stato? Chi ha urlato?”, chiese pallido il giudice che sembrò improvvisamente rimpicciolito.
Il pastore di Orune si affacciò in aula. Tutti si voltarono.
“Quello è un mulo che morde! Il mulo ha morsicato l’usciere!”
Nel frattempo le sue pecore invadevano l’aula. Ce n’erano dappertutto. Il loro continuo belato costringeva il giudice a urlare per farsi sentire.
“Fate sgombrare l’aula! Fate sgombrare l’aula! No, la tonaca no! Portatemi via questa pecora!” Le forze dell’ordine, impegnate col pastore a fare uscire il grosso del gregge, ignoravano letteralmente il giudice il quale stava disperatamente tentando di allontanare una pecora particolarmente vorace che aveva preso un motivo floreale della sua tonaca per dei fiori veri. Le pecore erano quasi tutte uscite quando si sentì un cane abbaiare delle vocali gutturali nel duro dialetto fonnese. Non trovando via di fuga il gregge impaurito dallo zelo del pastore fonnese, si rifugiò nell’unico posto possibile: l’aula B da cui erano appena uscite.
“L’ho capita la storia, io! L’ho capita! Non c’è bisogno di farla tanto lunga e di sentire testimoni e scemenze varie!”, urlò il giudice nella confusione più totale. “Il signor Marroccu è stato morso dal mulo e non vedendoci più dal dolore se l’è presa col responsabile! Perciò mi pronuncio per il non luogo a procedere, il morso del signor Marroccu non essendo reato o tutt’al più autodifesa! Ora accompagnatemi a casa per favore! Non ci voglio stare neanche minuto di più in questo manicomio!”
“E cosa vi stavo dicendo io?”, disse Oreste Marroccu.
Fu immediatamente circondato da familiari e amici. Ci furono abbracci e baci, strette di mano.
“Ce la cantiamo una crapola?”, propose Nanni Fois.
Gli amici si strinsero in cerchio e intonarono la più sublime “crapola” che tribunale ricordi.

domenica 14 settembre 2008

Small soldier




Missione di oggi: liberare i bambini del terzo cassetto di destra chiuso a doppia mandata. La chiave si trova nella ciabatta puzzolente sotto il comodino. Non sarà facile entrare in camera e neanche introdurmi in casa. Qui, qui e qui il signor Raminievski Zurkmong – che razza di nome! - ha installato delle telecamere. L’interno dell’abitazione è difeso da un sistema d’allarme intelligente che distingue i padroni di casa e l’intruso. Se dovesse scattare, il vostro amato eroe precipiterebbe in una botola e finirebbe divorato dai coccodrilli o dai leoni. Nonostante tutta questa tecnologia da paranoia il signor Raminievski fa i cento passi armato di Winchester, il fucile che nei western non sbaglia un colpo. Non esce mai di casa. Al massimo da uno sguardo dalla porta o dalla finestra per vedere se ha ricevuto posta. Avete capito che cosa signica? Significa che il signor Raminievski mi costringe a passare per le fogne e a uscire dal cesso, come adesso. Ovviamente non è stato tirato lo sciacquone. Eccomi qua, fradicio, nella sua camera… Conto sino a dieci. Non chiedetemi perché: l'ho visto in un film. Ciabatta iperpuzzolente individuata a ore undici. Chiave, cassettiera, aprire. Per mille cannoni laser, non si apre! Aspetta! Sta cedendo... Ecco, è aperto. Grida di gioia dei bambini... Zitti! Sincronizziamo gli orologi – anche questo l’ho visto in un film. Veloci, saltate! Seguitemi... Mi fanno tenerezza i personaggi che certi scrittori rinchiudono nei loro cassetti, convinti che un'opera d'arte non debba essere pubblicata e avere successo. Scrivo per me stesso, dicono... E’ come fare dei figli e non farli uscire di casa. Un attimo! Come-si-chiama sta andando in bagno a cercare l’ispirazione! Via libera. Uscite bambini e, mi raccomando, fatevi valere nel mondo dei lettori.

sabato 30 agosto 2008

Cirio


Passa l'infanzia serena,
passano i momenti spensierati con gli amici del bar,
passano gli affetti più cari,
passano i pomodori.

Cirio, una vita con te.

venerdì 29 agosto 2008

Coltelli Pattada


Tua moglie ti tradisce? La pasta è sempre scotta? Tuo cognato rompe? Pattada, la gamma di coltelli sardi sempre affilati, con manico in osso, disponibili in diverse dimensioni per tutte le necessità familiari.
Coltelli Pattada: il sorriso ritrovato!
Soddisfatti o rimborsati.

mercoledì 27 agosto 2008

Messaggio promozionale



Vuoi curarti? Hai deciso di operarti? Devi partorire? Hai un disturbo che non riesci a diagnosticare? Abbiamo la soluzione che fa per te. In ospedale potrai curarti, farti operare, partorire e saprai finalmente dare un nome alla malattia che da tempo ti affligge e distrugge. Le nostre equipe di specialisti metteranno la loro competenza al tuo servizio. Le nostre infermiere si occuperanno di te come sanno fare le vere professioniste. Finite le cure e le operazioni fai da te! Finiti i consigli della vicina di casa! In ospedale sei in buone mani. Potrai curarti, operarti, partorire come hai sempre sognato. Che tu voglia usufruire dei nostri servizi o semplicemente fare visita a un malato vieni in ospedale!
Qualunque siano le tue necessità ricoverati in ospedale! L’ospedale: i desideri che si avverano!

domenica 17 agosto 2008

Carasau Due, Carasau Due, qui Carasau Uno!


“Carasau Due, Carasau Due, qui Carasau Uno, rispondete!” Il comandante Mazzamurru, che ancora non si era fatto la barba e sembrava un pastore di Bonorvis, lanciò il suo appello dal terminale non appena si accorse che l’astronave gemella si era fermata nello spazio stallatico, probabilmente per un’avaria o per mancanza di propellente. Un classico a sole centoventi volte la velocità della luce. “A furia di andare così lenti finirà che le si attaccheranno le cozze di Olbian”, pensò Mazzamurru. “E una volta che ti si attaccano le cozze di Olbian devi solo abbandonare l’astronave e distruggerla come prescritto dal regolamento.” E già si immaginava il trasloco, il “travaso” dalla Carasau Due e il conseguente sovraffollamento nell’astronave ammiraglia. “Ma perché cavolo non rispondono?” “Carasau Due, rispondete! Capitano Puddu faccia inversione di rotta fino alla costellazione de Sa Furca!” Il capitano, un piccoletto calvo, magro, dalla pelle olivastra e il sorriso sarcastico, non si voltò neanche. “Comandante, finché ci troviamo sull’autorotta stallatica non posso fare l’inversione a U…” replicò senza lasciare trapelare nessuna emotività. “Tra poco”, proseguì, “saremo al bivio di Florinax e lì di inversioni a U gliene faccio due se vuole. A voglia se gliene faccio!” “Mai una volta che mi riesce di comandare”, bofonchiò Mazzamurru. “A casa, c’è mia moglie, qui il capitano Puddu. Il giorno che mi trovano!”

Contrariamente a quanto lasciava intendere la sua freddezza caratteriale, il capitano Puddu aveva una certa tendenza alla distrazione, paradosso che il suo “pisicologo” personale non si spiegava. Egli si accorse solo all’ultimo momento del bivio di Florinax e per evitare una manovra pericolosa in piena Carlo Felix dovette invertire la rotta a Chilivaner che per fortuna distava solo venti tanche stallatiche da Florinax. Puddu non si scomponeva e non si scusava mai. Anche questa volta proseguì come se non fosse successo niente. Non vi dico la faccia di Mazzamurru!... Chilivaner era all’epoca un nodo ferroviario per i passeggeri e le merci dell’Interstallatica ma anche un famoso ippodromo dove ogni giorno i potenti motori delle trakkas si sfidavano in corse spesso mortali.

La Carasau Due si librava in orbita intorno a un pianeta che in qualche modo ricordava a Mazzamurru quello della moglie Alfonsina Casu: la stessa consistenza e lo stesso colore della crosta, gli stessi vermi saltellanti ma quanto succulenti! Ricordava i muri a secco, entro i quali pascolavano felici mucche e pecore, gli ovili, la casa di lei… Ma non era questo il momento di pensare a Marzu per quanto desiderasse tornarvi per dare a Alfonsina il resto di una certa cosa… Dall’astronave intanto nessuna risposta. “ Ok, capitano Puddu, mandiamo un esploratore! Veda se il tenente Figus ha finito con le pecore e se ha voglia di vedere cosa succede là fuori!”


Improvvisamente, le note di un dillu cantau segnalarono l’avvicinamento di un’altra astronave. Il capitano Mazzamurru la conosceva bene quell’astronave: si trattava della Continente 70/b della flotta Continentale, un colosso contro il quale non conveniva assolutamente combattere. Vi aveva lavorato come mozzo molto tempo prima, all’epoca della cosiddetta ondata migratoria, prima ancora dell’Indipendenza, della guerra e dell’odio. “La giustizia lo tiri!” s’esclamò Mazzamurru. “Se ci vedono siamo morti! Capitano, gli uomini fumino il sigaro a fogu a intru, faccia spegnere tutte le luci e ordini il silenzio a tutto l’equipaggio. Chieda a quelli del settore B di smetterla di giocare alla morra e a quelli del settore A se per favore possono interrompere i cori! So che a loro costa e che la manderanno a cagare ma dica che lo chiedo io. Ah, dica a Figus di far tacere le sue pecore…” Il capitano Puddu sembrò esitare. Con ogni evidenza non gradiva ricevere degli ordini ma di fronte al pericolo non poté fare altro che eseguirli. In un attimo dal settore B non uscì più un solo numero, i cori montanari del settore A s’interruppero, le faide famigliari furono rimandate a tempi migliori, le pecore s’ammutolirono. Il silenzio fu totale, neanche fossimo nel pozzo sacro di Paulilatinus. La Continente 70/b che non si accorse delle due astronavi nemiche proseguì la sua corsa senza deviare. Passò talmente vicino alla Carasau Uno che rischiò di trattacasarla e il trattacasamento, in pratica il “grattugiamento” dello scudo, era di quanto più orrendo potesse capitare ad un’astronave nella profondità dello spazio interstallatico.


Quando il pericolo fu passato si ritornò immediatamente alla vita normale con balli, canti, vendette e sequestri. Il tenente Figus, che non sembrava particolarmente felice di indossare il suo scafandro rossoblu, si avviò verso il portello e si tuffò nello spazio sforzandosi di non scoreggiare per evitare una morte sicura per asfissia. E’ uno dei comportamenti salvavita fondamentali che si devono osservare nello spazio stallatico. Aveva un collega, un certo Angelino Muscas di Conchemalu, che scherzava con queste cose come se il grado di tenente lo esentasse da un minimo di prudenza. Finché si trattava di poca roba il pericolo rimaneva nell’ambito teorico ma dopo un pranzo a base di pecora bollita e innaffiato di buon vino le cose cambiano. Fu dopo un tale pasto che durante una passeggiata in scafandro, in uno slancio di superbia, sfidò le leggi della natura mollando un coscia-coscia che per essere silenzioso non era meno micidiale. In un attimo la morte sostituì il suo sorriso beffardo con un’orrenda smorfia. Il suo corpo martoriato fu recuperato e restituito alla famiglia che giurò di vendicarsi perché, queste furono le parole del fratello, “non si manda neanche un cane a passeggiare nello spazio quando ha mangiato pecora bollita”.


Quando raggiunse la Carasau Due bussò alla porta. “Avanti!” si sentì rispondere da una voce dura ma conosciuta e che sapeva amica. Ma tardarono ad aprire, come se fossero prima andati a chiudere le finestre per evitare che la corrente creata dalla Tempiopausania facesse sbattere la porta in faccia di chi sta entrando. Una volta nella Carasau Due Figus si tolse lo scafandro e già si guardava intorno eventualmente gli avessero già servito un bicchierino di filo di ferro o di vernaccia come si usa fare dalle sue parti. “Ciao Figus!” disse il comandante Fragu. “Vedo che ancora non ti sei sposato...” disse indicando un pelo nero di pecora impigliato nella fibra chiara della tuta del tenente. “Purtroppo non ho ancora trovato la donna che fa per me...” Rispose Figus che approfittò per aggiustarsi la cerniera dei pantaloni. “Come mai questa visita?” chiese serio il comandante Fragu. “Ma… non vi siete accorti che vi siete fermati e che il vostro terminale non funziona?” “Ci siamo ancora fermati? La giustizia!.. ma quante volte glielo devo dire a Sanna che deve fare il pieno di stallatico! Non si scherza con i viaggi nello spazio, specialmente se è profondo! Comunque risolviamo col gancio. Ce l'avete un gancio? Il mio l'ho dimenticato a casa." "Una fune fa lo stesso?" "Sì, va bene anche una fune... Ah, siediti Figus! Una vernaccina?”


La Carasau Uno agganciò la Due e la trainò sino alla base di Elmas 400 di Serrentis. Alla base le due astronavi fecero il pieno di stallatico e, trovandosi, chiesero il controllo del livello delle cozze. In effetti la Carasau Due ne aveva un bel po’ attaccate ma niente di preoccupante e di irrimediabile. Da un male mancato poteva nascere un bene. Non che amassero particolarmente i prodotti ittici dello spazio, è una cosa notoria, ma quella volta ne mangiarono con un appetito insolito, l’appetito di chi è pronto ad affrontare la parte più pericolosa del viaggio. Là, oltre le costellazioni de Sa Trattalìa e de Sa Musca Magheda, era la loro destinazione. Mentre l’equipaggio guardava quell’immaginario orizzonte il tenente Figus si appartò, disse, per un bisogno impellente.


Dieci ore sarde più tardi raggiunsero il pianeta Terra. In mezzo al mare notarono una curiosa isola a forma di sandalo. Gli strumenti di bordo raccontavano che era ancora deserta. La vegetazione era abbondante ma piuttosto monotona. In pratica l’intera isola era ricoperta di querce. “Ci sarà da lavorare”, pensò Mazzamurru.
Prese il microfono, fece una breve prova suono: “Sa, sa, sa…” Concas, l’adetto alle pulizie, non poté reprimere la sua solita battuta: “Sa matza ti càllidi!” Risata generale.
“Bambini”, disse Mazzamurru, “è qui che vivremo per un po’. Questo è il pianeta che ci hanno chiesto di colonizzare. Non vi preoccupate, non dovremo starci a lungo. Torneremo a TanKa il nostro pianeta e alle nostre case. So che vi manca tanto e non è giusto che rimaniate qui più del necessario. Altri verranno dopo di noi ma a noi è stato chiesto di fondare una civiltà. I vostri genitori hanno tanto da lavorare, voi mi raccomando, non bisticciate, perché quando bisticciate diventano nervosi e se diventano nervosi si ubriacano e non lavorano. Giocate come sapete fare e avete sempre fatto. La riuscita della nostra missione dipende dalla vostra preziosa collaborazione. Giocate alla morra, così ripassate la matematica. Se volete potete costruire delle capanne o delle casette.” Poi, rivolgendosi ai membri adulti dell’equipaggio: “Ajò!”
Gli uomini piantarono il mirto, il Cannonau, la Malvasia, il Cagnulari, misero una sirena sul Monte Gonare, edificarono delle città. Nel mentre i bambini costruivano dei nuraghi.

sabato 16 agosto 2008

Oggi dobbiamo


Oggi dobbiamo assolutamente parlare delle lampadine a basso consumo, quelle che quando la zia grassa vi viene a trovare vi dice: "Accendi la luce!" E voi: "E' già accesa!" E la zia grassa: "Come sarebbe a dire che è già accesa? Se non si vede nulla!" E voi: “Guarda che con queste lampadine si vede meglio che con quelle normali!” E lei: “Davvero? Se devo perdere la vista preferisco andarmene a casa mia!” “Va bene, ho capito, ho capito…” dite rassegnati.
Da un cassetto tirate fuori una ventina di candele e da un altro altrettanti piattini facendo diventare il vostro caro salone un’autentica camera ardente. La zia prende dalla borsetta un rosario di padre Pio e si mette a dire le preghiere. Il cane sotto il divano ulula. Cominciano ad affluire i vicini di casa, poi i parenti. Mestamente vi fanno le condoglianze. “Devi farti coraggio” vi dice uno. “La vita continua” vi dice un altro. Assieme vi chiedono: “Dov’è il morto?” E voi: “Quale morto?” Silenziosi si dirigono in camera vostra e partono le litanie, gli ave Maria piena di grazia il Signore è con te. Il vostro cuore batte cupo il tamburo. Vi precipitate in camera. Buio pesto. “Accendete la luce!” urlate. “E’ già accesa!” vi risponde il prete. Siete in un bagno di sudore, terrorizzati. Solo allora, sì, solo allora vi decidete a scendere in cantina sbattendo contro tutti gli spigoli della creazione perché anche lì avete messo le stramaledette lampadine a basso consumo. A tastoni cercate nella vecchia credenza che non avete avuto il coraggio di buttare l’unica cosa che vi possa fare ritornare nel mondo dei vivi: una normalissima lampadina da 100 watt non uno di meno. La trovate, cavolo la trovate! Tornate nel salone in un nugolo di pipistrelli. Siete talmente avvolti dalle ragnatele che sembrate un batuffolo di zucchero filato. Solo ora, sì, solo ora vi accorgete del forte odore d’incenso. Vi precipitate ad aprire la finestra, lanciate un osso al cane così la smette e scacciate la mesta folla orante. “I funerali sono rimandati a… al mese prossimo!” Salite su una sedia, quindi sul tavolo, poi sulla sedia che sta sul tavolo e infine sul dizionario bilingue che sta sulla sedia. In punta di piedi svitate l’orrenda lampadina e la sostituite con quella normale. “Deve funzionare! Non può non funzionare!” Funziona! Rientra vostro marito, o vostra moglie, a seconda. Baffetti se si tratta di vostro marito, baffetti se invece si tratta di vostra moglie. Vi guarda. Vi dice: “Mi scusi. Ho sbagliato casa…” Esce. Sipario.

martedì 12 agosto 2008

Pompe



In Italia, è risaputo, qualunque sia il modello che comprate, non c’è una sola pompa per bici che funzioni correttamente. La prima - sempre una barzelletta la prima - ve la regalano con la bici nuova, almeno dalle mie parti si fa così. E proviamola! Fiduciosi svitate quell’affaretto strano della ruota, applicate come da manuale il becco della pompa, pompate e… la ruota perde il poco d’aria che aveva. Che fate allora? Beh, comprate un’altra pompa non senza avere chiesto al commerciante “E’ sicuro che gonfia?” e avere aggiunto “Sì, perché quella che ho a casa è una fregatura”. “Tranquillo, è quella che uso io per la mia bici!” vi ha risposto il commerciante con un sorriso che non avete saputo interpretare. Rifiduciosi, svitate un’altra volta quella cosa strana e… non gonfia! Cav… Reprimete una sessantina di parolacce poi, bene o male, riuscite a calmarvi. Terza pompa. Questa volta volete andare sul sicuro. Niente mezze misure: la pompa del Tour de France vi serve, costi quel che costi. E vi è costato. Svitate il cosuccio strano, gonfiate, insomma ci provate: niente.
Lunedì mattina. Dal benzinaio siete in quaranta in fila, tutti in piedi ognuno a fianco della propria bici a parlare delle pompe di un tempo e di quelle di oggi che non pompano, di emigrare all’estero per trovare una pompa decente. “Non ci speri!” vi dice uno. “Io ci sono stato in Germania. Di là le pompe sono peggio di qui… In Francia forse hanno delle pompe che gonfiano ma sono le camere ad aria che non sono buone. In Italia, bene o male, ci si arrangia…” Quando arriva il vostro turno siete felici come una pasqua. Gonfiate ben bene le vostre ruote, senza dimenticare alla fine di avvitare quella cosa lì, salite in sella e sparite nella nebbia fitta apparsa improvvisamente solo per farvi sprofondare nel nulla.

martedì 5 agosto 2008

Non fai mai

“Non fai mai quello che ti dico!” si lamentò lei accendendo nervosamente una sigaretta.
“Be’, se mi dici di voltare a destra quando so al cento per cento che non devo ancora svoltare non lo faccio no quel che mi dici!” rispose lui senza alterarsi.
“E come sempre anche questa volta ci perdiamo!” rincalzò lei.
“Non ci perdiamo, fidati!” disse lui con tono suadente.
“Ma se ci siamo sempre perduti! Almeno chiedi la strada alla gente che incontriamo”. Marina aveva perso la pazienza: in un anno si erano persi ben cinque volte e lui che non voleva mai umiliarsi a chiedere la strada a nessuno!
“ Posso?” chiese imbarazzato il navigatore satellitare.
“Non puoi no!” gli urlarono contro lui e lei.

Ti prego, Anselmo

- Ti prego, Anselmo, mi devi credere!
- Anselmo, non l’ascoltare! l’ho vista io con questi occhi!
- Anselmo, ti supplico! Ci sei solo tu nella mia vita!
- Sì, ci sei tu e un’altra mezza dozzina di uomini!
- Insomma, Anselmo, credi più a me o al pappagallo?

giovedì 3 luglio 2008

Storia di una piccola casa editrice


E’ una storia che comincia un’estate calda di venti anni fa sul bastione di San Remy a Cagliari. Si tratta in pratica di due rampate di scale che s’inerpicano simmetricamente fino ad un piazzale ricoperto di lastre bianche sul quale battono distrattamente il tacco i passeggiatori, si baciano teneramente gli innamorati ed si espongono le merci più strane in occasione del tanto atteso mercato delle pulci della domenica. Comincia quando lo sguardo di mio fratello cadde su alcune riviste degli anni trenta intitolate Mediterranea. Mio fratello che abita tuttora in Corsica era venuto in Sardegna per trascorrere qualche giorno di vacanza in mia compagnia e magari visitare dei posti che ancora non conosceva, come Cagliari appunto. Le riviste, pubblicate in Sardegna, presentavano degli articoli di tutti i tipi ma tutti riguardanti l’area del Mediterraneo: c’erano degli studi sull’industria e l’agricoltura della nostra isola, dei racconti o delle poesie per lo più sarde, delle recensioni di libri sulla Sardegna ma anche, qua e là, delle incursioni in Sicilia e in Corsica. In quest’ultimo caso si trattava di poca roba, ma quanto preziosa, come un vecchio vocero o un detto che nessuno ricordava più. Insomma c’era di che continuare a sfogliare. Lo fece senza troppi complimenti e senza curarsi eccessivamente dell’espressione un po’ scocciata del venditore.
“Le prendo tutte!” decise.
“Perché hai comprato tutte queste riviste?” gli chiesi.
“In queste riviste parlano dei mazzeri”, mi spiegò…
“Ah!” dissi io senza aver capito un niente di niente.
Vocero, mazzeri erano dei termini che non conoscevo allora ma che per un lungo periodo sono diventati i miei compagni di viaggio. Il vocero è il canto funebre delle prefiche corse mentre il mazzero è in pratica una sorta di stregone delle tradizioni popolari della Corsica. Da allora ho arricchito il mio vocabolarietto di molti altri termini che girano intorno alle superstizioni e al mondo della magia in genere. Bene, non penserete che il vostro caro Lino a tempo perso si metta a leggere le carte alle vedove del quartiere? Intendo dire che a mano a mano mi sono creato una specie di specializzazione in tradizioni della Corsica.
In realtà, quello che mio fratello, che si chiama Salvatore, aveva preso per un articolo sul fenomeno del mazzerismo era un racconto, e che racconto! L’autrice era una certa Edith Southwell, di origine inglese. Strano, un’inglese che scrive della Corsica, in una rivista italiana. Perché non in Corsica? Non c’erano forse delle riviste in Corsica nelle quali scrivere in tutta libertà? “Guarda qui! C’è un altro racconto di Southwell! Ce n’è un altro in questo numero!”
E qui abbiamo cominciato a ricamare, a imbastire sogni e a contare le stelle. Io sono arrivato a cento milione di miliardi più una, battendo di stretta misura Salvatore. “Te l’immagini se facciamo conoscere queste storie in Corsica? Devi sapere una cosa: in Corsica si parla molto del mazzerismo tra gli studiosi di cose corse. Noi ci ritroviamo in mano delle storie degli anni trenta che di là mai nessuno ha letto!”
Quanto si sbagliava Salvatore! Quelle non erano storie degli anni trenta. Edith Southwell era un etnologo che aveva fatto il suo lavoro con coscienza. Aveva percorso la Corsica in lungo e in largo alla ricerca di tutte le espressioni della cultura dell’ île de Beauté raccogliendo racconti, poesie, voceri, proverbi, detti, canti vari e descrizioni del vivere del suo tempo e del passato. Spesso le persone a cui si rivolgeva erano degli anziani. Secondo quanto dice la stessa Southwell molti testi, che ripetevano di memoria, li avevano a loro volta sentiti quando erano piccoli declamati o cantati da anziani, il che li situava all’incirca un secolo addietro, qualcosa come il 1830. Avevamo sì delle storie degli anni trenta, ma di almeno un secolo prima!”
“Scusa, ma perché invece di fare vedere queste storie agli studiosi non le pubblichi?”
“Vuoi dire che dovrei diventare editore?”
“E che ci vuole?”
“E queste storie me le traduci tu in francese?”
“E’ scontato…”
In quel periodo non avevo il PC quindi il lavoro andava fatto a mano, mannaggia la pupazza! Quanto ho appreso però! Prima di tutto che questi racconti erano di una bellezza unica. Sapevate che la curiosità è donna? Quelli che non lo sapevano ora lo sanno. Bene, sono andato a curiosare in non so più quale archivio, credo di ricordare che fossero les Archives Départementales de la Haute Corse a un tiro di schioppo da casa dei miei genitori o più semplicemente nella bibliothèque communale di Bastia, a un tiro di patada lussurgese. E cosa ho scoperto? Ho scoperto che la Edith Southwell Colucci era tra le più belle donne che potessero passeggiare sulla Place Saint-Nicolas. Erano belli i suoi racconti ed era bella lei. Ma che c’entra Colucci? Beh, sì, era la moglie del celebre pittore toscano Guido Colucci. Il padre di Edith era un commerciante di cedri che possedeva pure una nave. Si innamorò ad un punto tale della Corsica che vi comprò casa e vi si stabilì. La figlia prese da lui la passione per l’isola coltivando il suo amore per le tradizioni popolari e per la scrittura, che c’interessa di più. Tra un racconto, una puntata agli archivi e un giretto in biblioteca cominciava a risorgere dal passato una grande personalità. Con forza però, perché le sue pagine sono tra le più belle che io abbia mai letto. Ho scoperto che Edith Southwell era una donna ammirata, amata e poi dimenticata. Ma com’era possibile? Come è potuto accadere che una donna così potesse finire nell’anonimato più assoluto? Nel mio vocabolarietto si affacciò una nuova parola: irredentismo. Gli irredentisti erano dei corsi che consideravano la Corsica come territorio italiano e appoggiavano le velleità espansionistiche del fascismo. Questo poteva spiegare perché la Southwell avesse preferito essere pubblicata in una rivista sarda: gli irredentisti erano probabilmente più rigorosi degli stessi italiani sotto il regime fascista. Si trattava solo di racconti mi direte. E’ vero ma a quei tempi, specie per le belle passeggiatrici inglesi, bisognava prendere posizione e se non eri per eri contro.
La traduzione fu portata a termine. Il risultato fu un libro di – aspettate un attimo che guardo – 174 pagine. In copertina la silhouette scura di due alberi probabilmente secchi, due pipistrelli svolazzanti e un titolo: “L’enfant ensorcelé”, il bimbo stregato. Dimenticavo: da un ramo dell’albero di destra pende tristemente una malmignatta, dalla puntura mortale a quanto pare. Sotto, la scritta Editions Mediterranea, senza accenti sulle e. Eravamo nati. Come casa editrice, dico. Salto i dettagli di come siamo arrivati al prodotto finito. In sintesi: ci siamo occupati della mise en page (lo dico in francese perché nonostante sia il mio mestiere tradurre non vorrei fare una gaffe) del testo, dell’immagine e della copertina e abbiamo consegnato il tutto a una stamperia locale. Non mi chiedete il nome del direttore, non lo ricordo proprio. So solo che sorrideva spesso e che ci aveva augurato un bocca al lupo enorme.
Distribuzione. Beh, abbiamo consegnato personalmente i nostri libri in quasi tutte le librerie di Bastia e dei grossi centri della Corsica, compresi Corté e Ajaccio. Non ci crederete ma abbiamo venduto tutti i libri ed erano parecchi. Ci fu addirittura una ristampa. Sfoglio il libro fino a pagina 5 e vedo che sotto il titolo è precisato che la traduzione è mia. Questo ve lo dico così, con il sorriso largo da mangiatore di angurie.
Tutto qui? E no che non finisce qui. Fruga qui, fruga là, mi è toccato tradurre altri racconti della Southwell, sempre dall’italiano. Ho sotto gli occhi la sua bibliografia completa che conta venti titoli che purtroppo abbiamo proposto ai nostri lettori corsi solo in parte. Ho detto qualche riga fa che la Southwell era tornata dal passato grazie a noi, a due figli di emigrati sardi che quando sorridono sembra che la testa gli si stacchi dal collo. Le Editions Mediterranea cominciarono a farsi conoscere e si passò presto a pubblicare altri nomi, altri generi. Ma i guadagni non bastavano a coprire le spese. Il tempo passava e anche un po’ l’entusiasmo. Alla lunga passò del tutto. La casa editrice chiuse i battenti dopo una decina d’anni circa d’attività.
Io ho smesso di contare le stelle, mio fratello pure. Ma credetemi: tra tutte le storie che ho letto, che ho tradotto e che ho scritto questa è la più bella.

lunedì 30 giugno 2008

La missione


La voce al telefono sembrava provenire dalla stanza stessa tanto le parole erano chiare e soppesate, calibrate ad una ad una come fossero di metallo prezioso, come se le loro implicazioni fossero decisive, di vitale importanza . “Lo faccia per tutti noi, come opera di carità”. Opera di carità. Ricordava un sermone nel quale si diceva che non esiste un modo definito per fare la carità al prossimo. E’ possibile farla non solo amando ma anche facendo soffrire, arrecando dolore fisico, nella carne, o affondando la spada nel cuore. Il dare non si esprime soltanto con il gesto della mano tesa, con il sorriso fraterno o con l’ascolto amico. E’ possibile dare con l’arma della distruzione e della riedificazione. E chi riceve non sempre è cosciente del dono che gli viene fatto. Da qui l’ingratitudine. Di questo si stava via via convincendo Orlando Casu che rispondeva alla terza telefonata del “vescovo”, come lo aveva chiamato don Mario, il parrocco della chiesa di San Battista annunciandogli che avrebbe telefonato personalmente per ringraziarlo di un servizio di cui non ricordava nulla.

La prima chiamata l’aveva ricevuta tre giorni prima. Il vescovo non fece nessun riferimento a qualcosa per cui doveva ringraziare il signor Casu. In realtà fu una chiacchierata piuttosto informale, iniziata con i convenevoli di rito: “Come sta? Ho sentito parlare di lei e del suo fervore religioso… Lei è un buon cristiano, mi compiaccio!” La sua principale funzione era di rompere il ghiaccio e portare la discussione su un problema di difficile soluzione. “Conviene che nella nostra città c’è un numero eccessivo di musulmani?” Conveniva. Uscire la notte era diventato una scommessa persa in partenza tanto il suo quartiere brulicava di arabi, quasi tutti provenienti dall’Africa del Nord. Per non parlare poi del suo recente licenziamento… “Sì, questa è politica. Singolarmente non possiamo arginare il flusso prorompente di questa gente. Eppure sono certo che, volendo, qualcosa si possa fare. La somma dei comportamenti dei singoli diventa la cultura dei popoli. Dico bene?” Diceva bene. Ognuno di noi ha un fardello, una missione nella vita e vegliare al suo compimento significa onorare il creatore per avercela donata.

La seconda chiacchierata fu per lui quella decisiva perché fu in quella occasione che il vescovo gli chiese di schierarsi, di prendere posizione a favore o contro la civiltà occidentale cristiana contro la piaga del mondo arabo islamico che aveva invaso la sua città e si stava estendendo su tutto il territorio italiano ed europeo. Dopo tutto che cosa gli costava dichiararsi favorevole alle sue stesse idee? No, non era razzista – il razzismo è peccato – ma bisogna sapere quando si è in guerra. ”Un popolo è già sconfitto quando non s’accorge di essere in guerra. Dico bene?” Anche questa volta diceva bene…
Nella terza telefonata gli furono date le istruzioni…
Mise giù il telefono, accese una sigaretta e cominciò a fissare la parete spoglia e ingiallita da uno spesso strato grasso del suo angolo cucina. Quella notte non riuscì a dormire.

Uscì. Camminò a lungo per le strade del centro storico che gli sembrarono un po’ più affollate del solito. Paradossalmente, non vide nessuno dai tratti somatici maghrebini. Ma si sa, gli arabi non sono mai turisti, neanche i miliardari lo sono, e che vuoi che gliene interessi del patrimonio artistico della tua città? Non sono qui per questo. Era una calda mattina di agosto. Casu sudava come una fontana sotto un solleone impietoso. Si sentiva nell’aria la vacanza, la voglia di non far niente, di godersi la vita all’ombra di qualche monumento mentre un turista comprensivo ti scatta una foto ricordo immortalando per i tuoi discendenti la tua fugace felicità. Avrebbe avuto voglia di fermarsi in un bar per prendere un secondo caffè e un bicchiere di acqua minerale gassata bella fresca. Avrebbe voluto scherzare con gli amici, i pochi amici che gli erano rimasti dopo un’intera vita di malintesi e tradimenti. Aveva però una missione da portare a termine e l’avrebbe portata a termine costi quel che costi.

La moschea era dietro l’angolo. La scorse. Visto da fuori l’edificio non aveva nulla di quelle moschee che si vedono alla televisione. Niente torre, niente muezzin. Si trattava di un grande appartamento al pian terreno che a prima vista poteva essere scambiato per una palestra anche per le numerose scarpe che ne ingombravano l’ingresso. Si tolse le sue che dispose contro un pilastro in modo da poterle ritrovare facilmente una volta uscito. “Lo faccia per tutti noi, come opera di carità”… Entrò nella moschea. Era la prima volta ma non fu sorpreso. Vide come in fondo si aspettava degli uomini in ginocchio in fervida preghiera mentre da una sorta di pulpito l’officiante rivolgeva loro la parola. Esattamente come aveva visto alla televisione.

Sulle prime non successe nulla. Nessuno si era accorto della sua presenza nonostante si sentisse in campo nemico. “Rimanga lì e non si muova! Per nessuna ragione al mondo!” La situazione non tardò a precipitare. I presenti fiutando l’aria cominciarono ad agitarsi. Si guardavano l’un l’altro con fare interrogativo, quasi accusatorio. Qualcuno si alzò, rinunciando all’orazione, per diventare l’inquisitore dei propri vicini. Gli accusatori furono a loro volta accusati e dovettero animatamente difendersi dai sospetti. I toni salivano, le voci erano concitate mentre l’aria stava diventando irrespirabile non tanto per la calura che in quella stanza sembrava decuplicata per il gran numero di fedeli ma soprattutto per quell’odore, quella puzza dei piedi portati in questo luogo sacro da Orlando Casu detto “la Puzzola”. Le discussioni animate divennero urla di rabbia, poi di panico e infine di disperazione. Vi fu un fuggi fuggi generale; la folla come una mandria impazzita si accalcava verso l’unica uscita, troppo stretta e sicuramente non a norma antincendio, un collo di bottiglia che per degli interminabili secondi sembrava invalicabile. Molti furono calpestati dai fratelli che cercavano la salvezza all’esterno.
Casu non aveva nessuna ragione di rimanere in una moschea deserta, perciò si diresse verso l’uscita, ritrovò senza difficoltà le sue vecchie scarpe vicino al pilastro, le annusò lungamente e disse incredulo guardando negli occhi il saraceno inferocito: “Boh!?”

giovedì 19 giugno 2008

Il grande Ofelio


Ofelio Ciroldo Serenz, l’attuale direttore del Circo Maximus, era famoso un tempo. Chi non ricorda le acrobazie volanti del Grande Ofelio? Oggi, però, è un uomo stanco, rotto a tutte le prove e a tutti gli scherzi. Non reagisce alle novità da almeno cinque, forse sette anni. Che gliene importa ormai dell’uomo pizza, del volo pindarico incrociato o della spaccata deviata all’inglese? I clown, che paga profumatamente per non far ridere, sono diventati ai suoi occhi poco meno che dei pagliacci, degli zerbini buoni solo per togliere il grosso dagli scarponi. Gli spettacoli poi non li va neanche più a vedere. Per averne visti troppi, o più verosimilmente per avere superato, e abbondantemente, la sessantina si sente ormai distante dagli applausi sfrenati per dei numeri senza senso e da quel riflesso di meraviglia che fa luccicare gli occhi dei bambini. La sua prostata è passata al primo rango delle sue preoccupazioni; al secondo, ma di stretta misura, il suo apparato digerente. Si dice, scherzando, che è diventato tutto casa e casa, anzi tutto roulotte e roulotte. I suoi spostamenti vanno dalla poltrona al bagno e dal bagno alla poltrona di giorno e dal letto al bagno e dal bagno al letto di notte. Questa sera però c’è stata una novità proprio nel bagno e proprio oggi che è il suo compleanno: da parte e d’altra del water qualche perditempo aveva disposto di nascosto due scarpe enormi da clown costringendo l’immaginazione a figurarsi qualcuno seduto sulla ciambella.
“Se credono di farmi ridere con queste cazzate”, disse tirando fuori il suo arnese e cominciando a servirsene.
“Va bene che non fa ridere, disse l’uomo invisibile lasciando la roulotte, però potevi fare a meno di pisciarmi in testa!”
“E tu ringrazia che non avevo voglia di fare altro!”, rispose acido il direttore.

martedì 10 giugno 2008

L’esiliato





Koronk era d’accordo. Koronk aveva un po’ esagerato e per questo è stato punito. Solo che è sempre vissuto dalla parte del sole e essere esiliato dalla parte buia del pianeta era troppo per lui. Dopotutto un troll è un troll e cose da troll deve fare: urlare, seminare il terrore e schiacciare ominidi. Di questo gli ominidi si devono convincere ma gli ominidi non ne hanno di cuore… Non ricordava come l’avessero portato dalla parte buia perché quando è successo dormiva profondamente sotto l’effetto delle possenti droghe dello stregone Malfug ma avrebbe scommesso una cena a base di code di drago che appunto sono stati proprio loro, i draghi, a portarlo, legato come un pacco, dalla parte buia del pianeta. Dal primo momento il suo unico pensiero è stato “come uscirne?” “Semplice, si rispose, basta camminare verso la parte del sole.” E così fece: camminò. Per non perdere l’orientamento fissava la stella più alta e più brillante della costellazione dell’Unicorno. Camminò a lungo, molto a lungo. Attraversava vallate, scalava montagne, guadava fiumi ma ancora non scorgeva all’orizzonte l’amato astro solare. Non si scoraggiava. Aveva davanti agli occhi i suoi diciassette fratelli e l’orto dove crescevano libere le zucche giganti e questo bastava a non fargli sentire la fatica. Ad un certo punto, ebbe l’impressione di trovarsi davvero nel suo orto. Distingueva nella fiocca luce dispensata dagli astri notturni i suoi contorni, le zucche... Solo che non poteva essere il suo orto perché non poteva stare lì, nella parte buia. A meno che… “Se questo è il mio orto, qui ci dovrebbe essere la mia casa con dentro i miei fratelli”. Si recò nel posto dove presumeva ci fosse la sua casa e la trovò. “Come è possibile? si chiese, non possono avere esiliato anche la mia casa!” Un troll si può esiliare ma una casa e un orto era sicuro di no. Decise che quella non era la sua casa e riprese la sua marcia. Camminò ancora più a lungo, seguendo la stella che non smetteva di fissare. Ben presto, ne era sicuro, si sarebbe di nuovo riscaldato al sole. Se non fosse che era in continuo movimento avrebbe sentito il freddo della parte buia. Forse sarebbe già morto. Ma camminava senza perdersi d’animo, camminava finché non ritrovò dei luoghi che gli erano familiari: la sua casa e il suo orto. Allora cominciò a capire. Il suo era un pianeta senza rotazione quindi se davanti a lui si trovavano davvero il suo orto e la sua casa significava solo una cosa: camminando imprimeva egli stesso il movimento di rotazione al pianeta. Aveva visto una cosa del genere nel piccoli meccanismi che usano gli ominidi per misurare il tempo: una piccola rotella riusciva a fare girare una rotella molto più grossa, esattamente come faceva lui camminando. “Ma allora, si chiese, gli altri come fanno per rimanere nella parte del sole?” “Semplice, si rispose, camminano tutti come me e quando mi fermo si fermano pure loro”. Rise, rise, rise e pianse…

lunedì 2 giugno 2008

I nonni


Se lo sanno tutti che i nonni, quando mangiano le lenticchie e si curvano in avanti, terrorizzano i figli ma fanno la gioia dei nipotini! E lo sapevi che i nonni sono le uniche persone al mondo capaci di spiaccicare una zanzara al muro con un calzino umido come quando erano militari? Altro che Baygon! Non ci vedono, dicono, ma come mai in famiglia sono i soli in grado di far passare il filo nella cruna dell’ago e a non portare gli occhiali? I nonni che quando s’incontrano tra di loro si vantano di appartenere alla "classe di ferro", alla favolosa classe di ferro, anche se ormai sono rimasti solo in due. Cavolo, vai a cercarlo oggi un giovane della classe di ferro se lo trovi! Com’è che si dice? “Nonno Sprint”? I nonni che quando vanno a votare, a fare il loro “dovere”, non vogliono fare brutte figure e si presentano in cabina elettorale con i loro abiti migliori. Si mettono per l’occasione la camicia al sugo oppure la camicia al giallo d'uovo o meglio ancora la quattro stagioni. Per mangiare si legano un tovagliolo al collo e mandano giù gli spaghetti col risucchio, come quando erano bambini. E poi bevono il latte. E' da un secolo che non bevo il latte e ti devo confessare che un po' mi manca. E poi, sai una cosa, i vecchi possono sparare cazzate e parolacce a volontà, perché ormai c’hanno diritto, anche se spesso un rompiballe di figlio gli dice proprio durante i festeggiamenti: "Papà, ti ho detto mille volte che non si dice cazzo!" E se vedono che i figli rompono troppo le balle, i nonni si curvano in avanti e fanno la gioia dei nipotini.