martedì 30 dicembre 2008

Il canto del cigno

Bombardamento di Bastia il 4 ottobre 1943

"Gli uomini, per la paura che hanno della morte, dicono il falso anche dei cigni; e dicono che, cantando essi il loro canto di morte, così cantano appunto per il dolore della morte" Platone

Dalla collina delle Tourettes il soldato lascia vagare lo sguardo sul convento dei cappuccini, con la sua chiesetta sormontata da un piccolo campanile a velo, sulle rovine della villa dei Giustiniani, dall'altro lato della strada, con il suo immenso giardino che si riversa su una scalinata di terrazze sino alle prime case della città, sul porto nuovo, oltre i flutti di lavagna grigia dei tetti, e, per il possibile arrivo di navi alleate, sulla linea dell'orizzonte. Alle sue spalle, lo spettacolo non è meno grandioso. I pendii, che dal Pigno si rincorrono come i cavalli di una giostra in una folle discesa verso il mare, si fermano all'improvviso ai bordi della pianura dorata dalle acque piatte dello stagno di Biguglia.
Diversi anni dopo, sotto un cielo senza tempo, sotto un cielo senza patria, tre bambini in avanscoperta, proprio davanti all'ingresso della casamatta, ostruito dal tempo e dall'oblio, scorgono un mitra arrugginito e, vicino, un casco bucato da una pallottola nemica.
Il soldato distoglie lo sguardo dall'incantevole bellezza che lo circonda, si china sul foglio di carta e scrive alla sua donna la sua ultima lettera d'amore.

C'erano tutti

C'era pure lo zio Checco. Mi direte: "Che c'entra lo zio Checco?" Non ne ho idea ma c'è mancato poco che venisse con il fiasco di vino e la zampogna. C'era pure la zia Elvira, che s'è fatto la permanente per l'occasione. C'erano il nonno e il nonna, che sembravano ancora più preoccupati di papà e mamma, e c'ero pure io con i miei fratelli, nella sala d'attesa, quando Costanza, mia sorella maggiore, passò la sua prima visita ginecologica.

Santa Maria Capua Vetere, facciamo il 30 dicembre 2008

lunedì 22 dicembre 2008

La crisi

Cara Elena,
come sai la parola che si sente maggiormente pronunciare quest’anno è “crisi”. Il telegiornale non parla d’altro. I miei la usano ogni volta che parlano. Mi hanno fatto notare che nei negozi c’è meno gente che compra regali. Ho sentito dire che, per risparmiare, avrebbero soppresso il nostro trenino di Natale, quello con cui facevamo il giro della città con tutti i bambini e tutto ci sembrava bello. Ti ricordi? Mi dispiaceva soprattutto per mio fratellino che ci teneva tanto. Ebbene, ti scrivo per darti una buona notizia. Da noi, è vero, non succede mai niente, ma questa volta qualcosa di buono è successo: il trenino c’è e ci aspetta.
Vieni quando vuoi.

domenica 14 dicembre 2008

Orologi


Ho conosciuto epoche in cui il tempo contava un po' meno di oggi. Quando chiedevi l’ora non ti davano mai una risposta precisa: erano “quasi le tre” o “le tre passate” e spettava a te immaginare quanti minuti mancassero o quanti fossero passati. Il tempo non aveva lo stesso valore per tutti. Mentre i vecchi la domenica infilavano nel taschino una cipolla che da anni non funzionava più i giovani mettevano fieramente degli orologi da polso a cui davano la corda prima di andare a letto e che al massimo sbagliavano di uno o due minuti al giorno. Era ben poca cosa perché la sera si potevano sincronizzare gli orologi all’ora esatta della TV. Noi, a Bastia, oltre ai canali francesi captavamo anche gli italiani attraverso un’antenna enorme puntata in direzione della Toscana. Prima del telegiornale eravamo tutti lì in attesa dei tre bip, del silenzio e dell’ultimo bip delle otto precise. Alle otto precise, migliaia, forse milioni di pollici pigiavano contemporaneamente su un rotellino. Poi gli indici spostavano le lancette degli orologi a cucù della foresta nera, quelli che non stavano mai zitti e a cui avresti voluto torcere il collo. Avevo un vicino di casa che era ossessionato dagli orologi. Ne aveva di tutti i tipi e in tutti i posti della casa. Quando entravi facevano un rumore assordante di pollaio. Come i una torre di Babele del tempo indicavano tutti un’ora discorde. Ma quando il campanile della chiesa di Saint Jean batteva le ore tutti questi piccoli meccanismi diabolici sembravano zittirsi per dare ascolto alla più autorevole ora di Dio. E poi c’erano i pendoli solitari che singhiozzavano in salone. Non si toccavano mai: si erano fermati un giorno smettendo di indicare l’ora dei vivi…

sabato 6 dicembre 2008

Altra conversazione col Bullecco


Gli stabilimenti del Préventorium di Luri, l’istituto per l’infanzia disagiata, erano disposti su due di tre terrazzi via via più piccoli. Il primo, quello più in alto, era sufficientemente grande da illudere i ragazzini di trovarsi su un campo di calcio. Ai bordi, il refettorio comune, il dormitorio dei maschi e una chiesetta . Il secondo, dove giocavano le ragazze, a cosa non si capiva bene, era decisamente più piccolo. Ai lati, il dormitorio delle ragazze, la lavanderia, le docce e una piccola scuola. Vicino alla scuola il giardino sempre in ordine del temuto direttore dove un certo Fregosi, così si mormorava, depose una mattina di maggio il più grosso dei suoi bisogni riuscendo a fare punire un altro al suo posto. Chi dirigeva il Préventorium doveva avere un cuore freddo, duro e freddo come il marmo della piccola tomba che occupava, solitaria, il terzo terrazzo. Vi era uno stesso nome inciso in quel marmo e in quel cuore: il nome di suo figlio, ucciso diversi anni prima da un rigido e spietato Natale.
Il bimbo chiese alla sua mano, il bullecco, se anche lui avesse i brividi. Il bullecco rispose di sì, che non stava bene, che era stanco. Il bimbo rimise il suo amico sotto le coperte al riparo dal freddo di quella notte di dicembre. La febbre e la voglia di fare pipì lo avevano destato nel pieno di una notte pulsante di sogni. I fratelli Pleuf-dans-l’oeuf sognavano una fantastica evasione oltre il Monte Cacao, oltre la grande e la petite source, laddove i cacciatori con i loro segugi non li avrebbero mai più riacchiappati. Ad aspettarli la mamma sorridente davanti alla loro casa, che nei loro disegni era sormontata da un comignolo fumante e circondata da tanti fiori. Spakov sognava l’allegria della sua famiglia numerosa mentre Fregosi trovava finalmente il baule pieno di monete d’oro di cui parlava in continuazione. Diceva che davanti a quel tesoro sarebbe svenuto e mostrava come ai compagni meravigliati lasciandosi cadere teatralmente a terra. Spaghetti le grand, fratello maggiore di Spaghetti le petit, il bimbo, sognava di Carolina, il cucciolo di cinghiale trovato proprio sotto la torre di Seneca. Carolina era diventata la mascotte di tutto il Préventorium e dove andavano i ragazzini andava anche lei. Spaghetti le petit non dormiva e non sognava più. Non potendo più resistere decise di affrontare il freddo e il buio. Posò i piedi nudi sul pavimento e seguì prima l’allineamento delle spalliere fino al muro poi il muro stesso fino ad una porta che aprì. Dov’è la luce? Cercò l’interruttore senza trovarlo. Pazienza. L’orinatoio, se lo ricordava bene, era a destra entrando. E lì svuotò la sua piccola vescica di tutto il suo contenuto.
Il nuovo giorno portò la luce in un dormitorio che l’ammalato era il solo ad occupare. La possente voce del direttore gli pervenne chiara dall’esterno: “Avete un minuto per denunciarvi. Se entro un minuto non avrò il nome del fetente che stanotte ha fatto i suoi bisogni nel mio studio sarete tutti puniti!”
Il bullecco chiese: “Glielo dici?”
“Sono stato io?”
“Sì”.
Il bimbo si alzò, si trascinò fino alla porta del fondo, l’aprì, fece tre passi nella neve e gridò: “Sono stato io!” Fregosi, vedendolo, gridò a sua volta: “Non è vero! Sono stato io!” Il direttore si precipitò sul bimbo che alzava le mani per proteggersi il viso. Ma non sentì sulle guance il calore degli schiaffi, sentì solo quello del petto dell’uomo che ora lo stringeva nelle sue braccia. Prima di sparire nel dormitorio col bimbo e il suo bullecco l’uomo guardò i ragazzini allineati e disse: “Non è stato nessuno! No, non è stato nessuno!” Il bullecco giurò di averlo visto sorridere.

I vecchi, di Jacques Brel

I vecchi non parlano più
oppure solo, a volte, dal fondo degli occhi,
anche ricchi, sono poveri
non hanno più illusioni
hanno un solo cuore per due.
Da loro, c´è un odore di pulito, di antica lavanda:
anche a vivere a Parigi
si vive tutti in provincia
quando si vive troppo a lungo.
Ed è per aver troppo riso che la loro voce si incrina
quando parlano di ieri
è per aver troppo pianto
che le lacrime imperlano le loro palpebre.
E se tremano un po´
è di veder invecchiare
la pendola d´argento
che ronza nel salotto
che dice sì che dice no
che dice: Io vi aspetto.
I vecchi non sognano più
il loro libro è chiuso
il loro piano è muto.
Il gatto di casa è morto
il moscato della domenica
non li fa più cantare.
I vecchi non si muovono più
i loro gesti hanno troppe rughe
il loro mondo è troppo piccolo
dal letto alla finestra
poi dal letto alla poltrona
poi dal letto al letto.
E se escono ancora
l´uno a braccetto dell´altra
nei loro vestiti rigidi
è per seguire al sole
il funerale di uno più vecchio
il funerale di una più brutta.
Il tempo di un singhiozzo
e dimenticare per un´ora
la pendola d´argento
che ronza nel salone
che dice sì che dice no
che dice che li aspetta.
i vecchi non muoiono
si addormentano un giorno
e dormono troppo a lungo
si tengono la mano, hanno paura di perdersi
e tuttavia si perdono.
E l´altro resta là
il migliore o il peggiore
il dolce o il severo
- questo non importa,
quello dei due che resta
si ritrova all´inferno.
Lo vedrete forse, la vedrete qualche volta
nella pioggia e nel dolore
attraversarvi la strada, scusandosi magari
di non essere più lontano
e fuggire davanti a voi un´ultima volta
la pendola d´argento
che ronza nel salotto
che dice sì che dice no
che poi dice loro: Io ti aspetto.
Che ronza nel salotto
che dice sì che dice no
che poi dice che ci aspetta
.

martedì 2 dicembre 2008

La notte

“Quanti cavalli hai tu seduto alla porta
Tu che sfiori il cielo col tuo dito più corto
La notte non ha bisogno,
la notte fa benissimo a meno del tuo concerto
Ti offenderesti se qualcuno ti chiamasse un tentativo”

De André

La notte non appartiene più ai poeti e neanche agli innamorati. Appartiene a loro. Uccidono e uccidendo ridono. Poi urlano alla luna mostrando la testa che hanno appena tagliato e con cui a lungo giocheranno. La serranda metallica del mio garage è diventata una porta di calcio. Ogni volta che segnano risuona di morte. Ogni volta che segnano è un colpo alla porta dell’inferno. All’alba di solito vanno via come se temessero il sole e per poche ore mi posso abbandonare al sonno riparatore ma oggi non è così. Forse hanno notato la luce di camera mia. Mi chiamano per nome. Mentre vado ad assicurarmi di avere ben chiuso la porta a chiave sento dei rumori per le scale, poi sul pianerottolo. Bussano. Uno dice: “Il nostro pallone è sgonfio. Non è che ci potresti prestare il tuo?” E ridono, ridono. Ma la cosa ridicola è che anch’io rido, mentre sfondano la porta, mentre cado a terra rido perché è la cosa più buffa che abbia mai sentito in vita mia.

Le voci di un tempo

Ah! le belle voci di un tempo! Enrico Caruso, Mario del Monaco, Claudio Villa… Ve lo ricordate Claudio villa quando cantava Granada? Aveva una voce tanto potente da frantumare tutte le vetrate e il cristallo di una cattedrale… Non c’era vetro che potesse resistere ai suoi acuti! Quando questo energumeno era in forma, la terra tremava, gli intonaci si staccavano dai muri, le vetrate e i lampadari cadevano in mille pezzi in un fracasso che le memorie avrebbero ricordato per sempre. La gente inorridita cercava disperatamente di sfuggire al quell’inferno di note omicide. Nel fuggi fuggi generale, il pubblico impazzito calpestava senza pietà donne, bambini e anziani. Le ambulanze accorrevano a sirene spiegate, poi i medici coprivano i morti con un lenzuolo e portavano i feriti in ospedale nel tentativo disperato di salvare qualche vita. Intanto Claudio Villa cantava, cantava seminando morte e terrore intorno a lui. Era ogni volta così. Bisognava assolutamente fermarlo! Chiamate i pompieri, chiamate l’esercito, sparategli, lanciate una bomba se necessario! Una bella serata di canto non può trasformarsi in orrore, in massacro! Poi era ora di bilanci. Capitava che una città fosse rasa al suolo… Si contavano le vittime, morti e feriti più i danni materiali che si ammontavano a milioni e milioni di lire. Una volta, me lo ricordo come se fosse ieri, aveva cantato Granada in TV. Io avevo abbassato il suono al massimo perché sapevo che se non lo avessi fatto, quando sarebbe arrivato al punto critico – “Lenisci la pena di questo mio cuore zingaro! Addiooooooo… Granada romantica paese di luce di sangue e d’amor” - il televisore sarebbe esploso come una bomba. Questo successe, non al mio ma a quasi tutti i televisori d’Italia. Questo era Claudio Villa, il grande Claudio Villa.