lunedì 1 agosto 2011

Ma...


Vedete, quando si tratta di entrare in acqua, al mare, sono tutto tranne che un leone. Non sono e non sono mai stato, neanche nella mia più agitata adolescenza, uno di quei tuffatori impavidi che si buttano tutto in una volta. Al contrario. Prima immergo i piedi, poi piano piano le caviglie, quindi, avanzando piano piano, arrivo sino alle ginocchia e così via fino alla totale e sofferta immersione che inevitabilmente corrisponde col tramonto. La filosofia che sta dietro questo comportamento, che peraltro mi sembra piuttosto diffuso tra i miei coetanei, è antitetica alla cosiddetta full immersion e si basa principalmente sulla teoria del progressivo adattamento del corpo alla temperatura esterna. Quello che ho tuttavia notato, correggetemi se sbaglio, è che se la parte immersa si adatta al freddo dell'acqua per quella che rimane ancora fuori non è così. Anzi, direi che immergere le parti rimanenti è sempre più difficile, e in una proporzione tale da farmi ritenere che una stessa quantità di dolore si concentri su una superficie ogni volta più piccola. Sarebbe interessante a questo proposito elaborare una funzione matematica o un qualche algoritmo che ci traduca l’esatta misura di aumento del dolore e la renda comprensibile a chiunque spiegandoci una volta per tutte perché mettere la testa sotto acqua è molto più arduo che per i piedi. Da qui la mia domanda: ma… la quantità di dolore è costante nell’universo?

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