venerdì 11 dicembre 2009

La mosca

Ho tre lauree, una in medicina, una in biologia, una in scienze naturali e sono ora una mosca. Avevo, prima, delle ambizioni, dei sogni, ma le mie fantasticherie morirono istantaneamente quando accettai una proposta di lavoro a due passi da casa.
E’ un piccolo laboratorio di analisi mediche nascosto in un triste anfratto cittadino, che in teoria, come recita la carta dei servizi, dovrebbe fare dei prelievi di sangue, studiare le intolleranze alimentari, fare ogni sorta di esame microbiologico, citologico, batteriologico, ed estendere le proprie attività alla medicina del lavoro. La sorte canaglia volle che si specializzasse in analisi di campioni biologici e cioè di orine e di feci, involontaria vocazione che fu all’origine della mia metamorfosi.
Quando misi piede per la prima volta nel laboratorio, avvertii un odore così forte, così acre che, scorgendo un pozzetto d’ispezione fognaria nel centro della sala d’attesa, messo lì a dispetto delle norme igieniche, pensai a qualche problema allo scarico che solo l’autospurgo poteva risolvere. Ben presto mi resi conto che la causa delle esalazioni mefitiche erano i campioni che vi ho detto i quali affluivano in enorme quantità creando, oltre al problema delle analisi, che inevitabilmente procedevano a rilento, quello dello stoccaggio e dello smaltimento. Ce n’erano dappertutto, su tutti i ripiani, per terra, sulle scrivanie, sotto, nei cassetti. I campioni provocavano questi inconvenienti logistici, tormentavano l’olfatto dei presenti e attiravano centinaia di mosche e mosconi. Ma non vi è nulla a cui non si possa abituare l’essere umano, specialmente quando è costretto a convivere con la causa dei propri mali. Già dopo alcuni giorni il mio naso non sentiva più i cattivi odori e, alla lunga, gli insetti volanti divennero dei compagni di viaggio oltre che dei commensali, quando il carico di lavoro mi costringeva a consumare i miei pasti in sede.
Questa promiscuità forzata, la mia specializzazione in entomologia, la mia curiosità naturale mi portarono ad approfondire i comportamenti delle mosche e credo di avere appreso da loro più di quanto un essere umano possa mai apprendere in una sola vita. Ammetto che la nostra convivenza fu inizialmente difficile, sofferta, specialmente in quei momenti di incomprensione reciproca tipica delle fasi di studio dei rispettivi linguaggi e delle rispettive identità. Ma una volta stabilito un minimo di comunicazione i nostri rapporti diventarono molto più collaborativi e, oserei dire, simbiotici.
L’avventura cominciò alla mia insaputa, in un momento imprecisato e per delle ragioni che ancora ignoro. Me ne resi conto quando mi erano già spuntate le ali, che ovviamente tenni nascoste sotto i vestiti. Quando anche la testa e il resto del corpo iniziarono la loro trasformazione, decisi di non togliermi più né cappello né mascherina né occhiali da sole né guanti e, per sottrarmi alla vista dei miei colleghi, di confinarmi nella mia porzione di laboratorio, in pratica uno sgabuzzino, in un esilio volontario che durò molto meno di quanto pensassi. Fui mosca in soli tre giorni e soli tre giorni mi rimangono da vivere.
Ma ho appreso ad accettare la morte, l’ineluttabile, orrenda morte, e a gioire pienamente della vita, con tutte le mie forze, per quel che mi dà, ogni giorno, in abbondanza. Come me altri, sette in tutto, che hanno subìto la mia stessa metamorfosi: siamo ormai in otto a fonderci in un rombare allegro, felice, in un vibrante, inebriante inno alla vita, e a sfregarci le zampette quando lo “chef” sorridente apre la porta e ci consegna la "Nutella".

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